Testo a cura di Carmine Rubicco
Oggi siamo quasi completamente abituati alla tv verità, a trasmissioni che ci presentano la così detta “vita in diretta”. Talmente assuefatti che quando arriva qualcosa di effettivamente reale, senza fronzoli, diretto e spietato quasi non ce ne accorgiamo. È il caso di due film completamente italiani e che affrontano, da due punti di vista differenti, tematiche simili. Da una parte c’è il candidato all’Osacar Fuocammare di Gianfranco Rosi. Dall’altra Robinù di Michele Santoro. Due ‘film’, se così li vuole definire, immensi. Capolavori di genere? Può darsi, anche se il definirli tali diventa del tutto irrilevante.
Certamente sono film scomodi e urticanti. Irritanti per tanti e per molti versi. Irritanti come la realtà che rappresentano. Una realtà non passata attraverso la censura del lieto fine né tantomeno del bel vivere. una realtà che esiste ma che troppo spesso si cerca di ignorare. Rosi, veterano del reportage sociale, scaraventa sul tavolo l’oggettività dell’immigrazione nel primo pezzo d’Italia che i migranti riescono a toccare, Lampedusa. Santoro dal canto suo mette il dito in una piaga altrettanto sanguinosa e pericolosa: le nuove leve di malviventi napoletani.
Giovani tra i 15 e i 20anni che si fanno la guerra nel peggiore dei modi. Fuocoammare pone l’accento su tutto ciò che gravita attorno all’arrivo degli esuli. Dalla ricezione di messaggi di soccorso all’arrivo della guardia costiera, dallo sbarco al controllo medico e identificativo, dallo smistamento nei centri di accoglienza alle fughe. Ma non solo. Lo scenario è molto più ampio. Circondano il fenomeno elementi tante volte non tenuti nella corretta considerazione, i siciliani. È con questi che Rosi si confronta.
È con loro che vive il fenomeno. Un vivere che non è fatto di strumentalizzazione ma semplicemente di una telecamera che si limita a riprendere ciò che accade. Nessuna voce se non quella dei protagonisti. Nessuna retorica se non quella della quotidianità. Allo stesso modo Santoro presente il sottobosco napoletano, facendo parlare chi lo vive e in un certo qual modo lo subisce. Esempio ne sono i genitori dei giovanissimi delinquenti che pur non avallando la situazione non riescono a fare altro che accettarla passivamente senza abbandonare i propri figli.
Sono film pesanti come macigni, violenti come pugni nello stomaco e come tali vanno assimilati. Non sono immagini che possono passare distrattamente durante una cena con gli amici. Si tratta di specchi. Immagini di noi stessi che attoniti osserviamo una realtà che sospettiamo ma non amiamo osservare. Eppure c’è, è lì e non basta distogliere lo sguardo. Per tale ragione le critiche rivolte ai due docu film, come piace oggi chiamare opere di tal fatta, perdono ogni consistenza.
Il lungometraggio di Rosi è stato definito troppo ‘manierista’, troppo auto celebrativo. Quello di Santoro populista e di parte. Come la si voglia mettere resta l’evidenza dei temi trattati, la durezza della parole dei protagonisti, l’angoscia che attanaglia la coscienza civile in più scene e la stretta allo stomaco all’uscita dal cinema. Non sono film per tutti, come è forse giusto che sia. L’importante è che il messaggio lanciato non cada nelle mani di sterili intellettualismi e patetiche prese di posizione ma che faccia breccia in una società che sta diventando sempre più disumana nella difesa di status reazionari e pericolosi mentre i propri figli chiedono solo un’opportunità.