Testo a cura di Carmine Rubicco
Ho creduto che con il trascorrere dei giorni la nebbia, dovuta al colpo allo stomaco, si sarebbe diradata. Che avrebbe lasciato un po’ di spazio alla lucidità e alla distanza necessarie per scrivere qualcosa di sensato, di logico. E invece mi sono sbagliato.
Il groppo alla gola non se n’è andato. La nebbia si è si diradata ma, il mondo, è ancora bidimensionale. Anzi, ancora più bidimensionale. Eddie Van Halen, il solo ed unico, l’icona, colui il quale è riuscito a tracciare un solco tra il prima e il dopo.
Il compositore di Jump, di Ice cream man, di Hot for teacher, di centinaia di riff che chiunque abbia mai preso una chitarra in mano ha tentato di riproporre, proprio lui, se n’è andato. L’incredulità domina ancora. Va bene, era ammalato, ma da qui ad un decorso così rapido ce ne passa. Come si fa a scrivere qualcosa di oggettivo e sensato su colui il quale mi ha introdotto alla musica rock? Senza il quale mai avrei pensato di suonare la chitarra?
Ricordo come fosse ieri e, forse, lo era davvero, ieri. Correva l’anno 1985, una torrida estate. Un ragazzotto poco più grande proveniente dal Canada fa ascoltare Jump, Panama e Hot for teacher da una cassetta.
Io avevo 13 anni. Che cos’era quello che usciva dalle casse? Come faceva quell’uomo a produrre quei suoni? Come diavolo faceva a fare così tante note praticamente tutte assieme? Per chi si stava timidamente affacciando al mondo della musica attraverso la radio i Van Halen furono una rivelazione.
L’estate finì, tuttavia quel suono non voleva andarsene dalla testa. Cercando nel più rinomato, non il più fornito, negozio cittadino, trovai una copia di Woman and children first. Folgorazione totale. Quel disco non uscì dal wolkman se non per raffreddarsi. Senza sosta. Girava senza sosta. E senza sosta era il cercare di capire come quella chitarra potesse suonare in quel modo. Primavera 1986. Esce il nuovo disco.
Estate, il disco è stato duplicato su cassetta e da quel momento in poi accompagnerà per ogni dove. Imberbe ed acerbo metallaro ero all’oscuro delle diatriba che aveva accompagnato quello che per me era un disco bellissimo. Sapevo solo che era cambiato il cantante. Lo dicevano le note di copertina. Quello che contava era che la chitarra di Eddie fumasse e corresse ancor lanciando nell’aria melodie incredibili, aperte, solari, ora più malinconiche, ora più cattive ma sempre con la sua chitarra in primo piano.
Trascorrono pochi anni. OU812, e fu ancora magia. Nel frattempo la collezione dei vinile era iniziata, così come per le cassette e i primi pezzi furono proprio i loro dischi. Da allora è sempre stato così, per ogni nuova pubblicazione che, per quanto scadente, era sempre attesa con trepidazione.
Chi sa cosa si sarà inventato questa volta, era la domanda. Poi sono arrivati i tour. E li è stata l’apoteosi. Vedere il signor Van Halen dal vivo era un’esperienza. Oggi molti chitarristi vanno ai concerti dei grandi come a lezione. In religioso silenzio e occhi puntatati sul manico. Con i Van Halen non era possibile. Non si poteva stare fermi. Si doveva fare casino, non c’erano scuse. L’unico momento di trance collettiva era quando mr Eddie Van Halen aveva il proprio momento solista.
D’un colpo 7, 8 , 9 mila persone si sono zittite all’unisono. E lui era sul palco come fosse da solo, con quel sorrisetto da teppistello e la faccia da schiaffi sparando riff e fraseggi come se stesse giocando. Ecco, forse la caratteristica che più passava di Van Halen, il divertimento. Lui, così come gli altri membri della band, si divertivano. Forse Eddie un po’ di più. Ma tant’è. E questo si ripercuoteva sul pubblico che non mancava occasione per restituire energia alla band.
Tra il 1990 e il 2020 le volte in cui sono arrivati in Italia si contano su una mano sola, ed avanzano anche delle dita. Quelli della mia generazione sono stati fortunati ad esserci. È un po’ come chi è riuscito ad assistere ad un concerto di Hendrix o di Bob Marley. Sul palco era solo magia. La sua morte addolora, addolora moltissimo, umanamente e artisticamente. Nel primo caso è come se un pezzo che forma il castello dell’adolescenza si fosse cristallizzato diventando indistruttibile.
Muore l’uomo, ma nasce il mito. Anche se Eddie mito lo era già. In un minuto e 42 secondi è riuscito ad arrivare dove tantissimi non sono riusciti neppure in una vita. Un minuto e 42 che hanno segnato il prima e il dopo, che hanno distrutto ciò che c’era per proiettare verso un futuro da scrivere secondo nuove regole.
Quello che hanno scritto la maggior parte dei giornali, hanno detto la maggior parte delle radio e delle tv è sacrosanto e vero. Manca, tuttavia, una parte più umana che è quello che Eddie è stato per chi lo ha seguito, per chi lo ha sempre ammirato e che crede che non sia morto quanto piuttosto disciolto in note. Un a solo che mai avrà fine e verrà suonato dalle migliaia di chitarristi che ha influenzato ed ispirato.