Di belle voci nel panorama musicale ce ne sono tante. Di voci ‘mostruose’, nel senso classico del termine, se ne contano, invece, davvero poche. Quella di Daniela Spalletta rientra certo in questa seconda categoria.
Questo suo Per aspera ad astra è un disco che stupisce. Fin da subito. E i motivi sono parecchi. Stilisticamente il progetto si pone nella sfera più alta del jazz con mille influenze diverse.
A lasciare immediatamente l’ascoltatore interdetto è la voce della cantante che libera il campo da qualsivoglia dubbio qualitativo, seppur in modo non aggressivo o troppo dominante.
Si deve infatti aspettare il quarto brano, Samsara, per essere definitivamente sconvolti. Fino a quel punto si possono apprezzare i crossover strumentali. Jazz, musica classica, musica mediterranea (la nostra è trinacride) progressive, rock, sperimentazione.
E non ci si ferma qui. Nel frattempo Spalletta offre degli squarci sulle proprie capacità. Assaggi che certo soddisfano anche i più esigenti ma non danno ancora il presagio di quello che arriverà con Samsara, una cavalcata di 7 minuti nella migliore tradizione prog.
Qui è un tripudio musicale. Sia strumentale sia vocale. Ritmi, armonie, arrangiamenti, cambi di tempo, veri e propri virtuosismi da parte di tutti gli strumenti, voce compresa. Il solo modo per poter capire è ascoltare. Se si dovesse credere di aver capito l’andamento del disco o le capacità dei musicisti, sul brano in questione si deve per forza rivedere il tutto.
Quello che sarebbe potuto sembrare un ‘semplice’ disco jazz (virgolette d’obbligo perché di semplice o scontato in queste tracce non c’è nulla) si trasforma ancora una volta. La canzone deve essere ascoltata un numero imprecisato di volte per poterla apprezzare quasi del tutto.
In verità non la si riuscirà mai a cogliere in tutte le sue sfumature. Ci si può limitare a scoprirne di nuove ad ogni ascolto. Superato questo cancello il disco diventa inarrestabile. Rotti gli argini i musicisti non possono che mantenere la rotta.
Largo quindi ad arrangiamenti degni dei musical più entusiasmanti, con incredibili orchestrazioni o tappeti minimal, voli pindarici tra generi diversi, svolazzi melodici, contrabbassi improvvisi, ritmiche imprendibili. Si arriva quindi al secondo brano lungo del disco, Power flow-er, 7 minuti e 15 di musica. Nell’accezione più alta del termine.
E nuovamente scompare ogni certezza, ogni muro logico di comprensione per lasciare spazio alla semplice emozione. Così come accade con la successiva Flamen, degna dei più ispirati e lisergici Pink Floyd di Atom heart mother.
Si cambia ancora registro con la successiva Rosa dove viene chiamata in causa la musica sacra con un duetto piano e voce. Un passo ancora oltre lo si fa con Yasam, dove viene coinvolta la musica mediorientale. Poi ancora due balzi per giungere alla fine delle tracce con la chiusura affidata alla title track.
Per questo disco c’è un solo consiglio se vi piace essere stupiti dalla musica al di là del genere: non può mancare in una discoteca degna di questo nome. Non ci si faccia spaventare dall’ambito di partenza, il jazz.
Si discioglie in note man mano che le canzoni avanzano lasciando spazio solo alla musica e alle emozioni che riesce a trasmettere. Se invece siete tra chi ha bisogno di melodie conosciute e che deve cantare al secondo ascolto, lasciate perdere. Non buttate soldi per un’opera che mai vi convincerà.