Ridatemi il mio corpo
Capitolo 22
La pesante porta pare non essere stata mai aperta. Ruggine e segni di deterioramento ne disegnano la sagoma. “Se i progettisti hanno seguito le regole – pensa prendendo la torcia con la bocca per avere le mani libere – non dovrei avere problemi ad aprirla. La legge imponeva, anche ai tempi della costruzione di questo edificio, che i cardini fossero fatti di materiale che non si bloccasse. Speriamo solo non sia chiusa a chiave”. Così pensando afferra la maniglia con entrambe le mani. Non succede nulla. Non si abbassa. “Maledizione. I cardini potrebbero anche essere a posto, ma se non si abbassa la maniglia è un problema”. Rimanendo concentrato si guarda attorno.
“Devo trovare una leva che mi dia una mano”. Detriti poco distanti gli vengono in soccorso. Si avvicina ad un mucchio di materiale non meglio specificato caduto dal soffitto. Tra mattoni e pezzi di vetro, trova una sbarra di ferro. “Questa potrebbe fare al caso mio”. Si riporta di fronte alla maniglia. “A noi due” pensa. Infila la sbarra tra lo stipite e la serratura. Una pressione decisa ma non troppo per evitare di spaccare tutto. Nulla. Rilascia il ferro. “Ok – si dice – allora proviamo con più forza”.
Riafferra la leva e con tutto il peso del corpo la spinge verso il basso. Si spezza. Contemporaneamente il rumore di uno scatto riecheggia nel corridoio. É per terra. “Speriamo bene” pensa rialzandosi. Afferra la maniglia, rimasta abbassata e tira la porta verso di sé. Onde di rumore di acqua che scorre lo sommergono. Apre del tutto. La torcia, tornata nelle sue mani, offre lo scenario di un ponte di ferro. Entra senza esitare. Testa la tenuta del materiale della struttura.
Si trova sospesa a diversi metri di altezza su un labirinto di scale e ponteggi. Davanti a lui tre gigantesche turbine. Le mura sono di pietra viva questa volta. Il ticchettio della gocce che cadono dalle pareti segnano il livello di umidità. “Bene – si dice – fino a qui ci sono arrivato. Ora vediamo di trovare un sistema per uscirne vivo. Dovrebbe esserci una scaletta che costeggia le imboccature all’esterno. Potrebbe condurmi in uno spazio sicuro dove non essere visto”. Non perde tempo. Si dirige verso la scaletta di sinistra.
Il rumore dell’acqua che scorre nel fiume sottostante attutisce quello eventuale di ogni altro segno di vita. Si sposta con attenzione nel tentativo di non scivolare e per cercare di prevenire eventuali sorprese. “Non ho visto tracce di passi nè tanto meno automezzi fuori – pensa – ma non si sa mai. Alla fin dei conti hanno obbligato ad arrivare fin qui”. Il labirinto di metallo fatto di scale e ponti si dipana a zig zag andando a toccare tutte le turbine. La torcia fa luce sull’acciaio.
Ne segue i corrimano fino all’ultimo balzo. L’ultima rampa si ferma sull’argine del fiume in prossimità di un’apertura. “Ecco la mia via di fuga” pensa Inamod. Sulle pareti attorno ha visto diverse altre aperture chiuse da porte come quella che ha attraversato. “Devono essere gli ingressi dagli altri settori” pensa avanzando. Pochi passi e nota che una di queste si apre. La differenza di buio evidenzia una sagoma scura che l’attraversa. Prima del pensiero arriva il riflesso del combattente.
Spegne la torcia e resta immobile. Si aspetta di vedere entrare in sequenza altre figure. Non accade nulla. La prima immagine si è persa nell’oscurità della caverna. Resta ancora immobile. “La rampa per scendere è troppo lontana – pensa – mi conviene tornare indietro”. Lentamente inizia la retromarcia. Resta basso. Si muove piano. “Speriamo non abbia visto la mia luce” si dice armando la pistola.
L’acqua continua a scorrere. Nonostante il rumore si odono distintamente passi che scendono i gradini. Inamod aumenta il passo. “Devo trovare un nascondiglio”. Giunge al gomito che lo ha portato sul ponte. Si appollaia in silenzio. Aspetta che i passi si fermino perché arrivati sul suo stesso livello. Punta la pistola verso il nulla.
“Non puoi scappare – esplode una voce all’improvviso – ti ho visto. Non hai scampo”.