Se Paolo Conte venisse incrociato con Vinicio Capossela, Tom Waits, Frank Buscaglione e un pizzico di Lemmy Kilmister probabilmente ne verrebbe fuori Tiberio Ferracane. E verrebbe scritto il suo Magaria. Tutti gli artisti su menzionati hanno in qualche modo influenzato il nostro, sia nelle metriche del cantato, sia nell’utilizzo della voce, sia nella stesure delle liriche.
Queste ultime divise tra italiano, francese, dialetto siciliano. Quello che ne esce è un quadro variegato, multidimensionale, dai colori in ogni caso vivaci, duri, anche nei momenti più malinconici. Canzoni intense, reali, che non hanno paura di mostrare il lato umano del nostro. Ed è questa la caratteristica più evidente. In tutte le tracce è una sanguinante umanità che viene esposta, mostrata.
Certo non derisa, ma evidenziata. E non come debolezza quanto come forza propulsiva di una inarrestabile vitalità dispiegata in ogni canzone. Ferracane non si lascia mai andare a piagnistei o inutili recriminazioni. I suoi sono racconti di vita, esperienze, fatti. Vissuti nei quali l’ascoltatore ben può rivedersi, rivedere chi conosce, gli affetti, se stesso. Magaria, per utilizzare una similitudine, il disco può essere visualizzato come il viaggio fantastico di un personaggio portato dal vento.
Un personaggio non più giovanissimo che sorvola la vita, rivedendone alcuni momenti salienti. Per volare non può esserci peso. E così è per il nostro viaggiatore nel vento. I brani sono ricordi, affreschi senza rimorso. Nostalgici, quello si, ma non rimpianti. Non c’è pentimento, c’è coscienza di ciò che è passato, di ciò che il nostro viaggiatore vede passare sotto i suoi occhi troppo in basso per essere toccato ma non abbastanza per non essere visto e riconosciuto.
Musicalmente il disco è un mix dei cantautori citati in apertura. Si, anche di Lemmy nella sua immediatezza, nella sua voce roca, non carezzevole, urticante, eppure colma di vita e di carisma.
Un disco consigliato agli amanti di Corto Maltese, di tutte le età e provenienza musicale.