Grunge is not dead, parafrasando l’adagio del Sex Pistols. Non solo non è morto, ma è stato portato avanti, evolvendo, fino ai giorni nostri. Ci hanno pensato i Madness at home con Shoelace. Non si pensi al grunge in senso stretto o derivativo. Tutt’altro. Si devono prendere in considerazione il riffing, i suoni, la rabbia della scena di Seattle nel suo insieme. Quindi non solo Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, My sisters machine, Soundgarden, e via citando. Proprio la band di Cornell fa sentire in modo preponderante la propria influenza. In particolar modo con in primi due dischi e le loro parti più psichedeliche. Basso iterante, chitarra dissonante su suoni lunghi.
Si deve pensare poi a tutto il versante garage, Mudhoney e Pixies su tutti, miscelato con l’aternative di quell’epoca. Ecco. Quasi ci siamo. Quasi però. Ancora manca qualcosa che a parole non è esprimibile. È solo la musica che riesce a trasmettere un emozione di coinvolgimento, di sintonia tra sono e anima che non si riesce ad esplicare in nessun modo. La si deve sentir nascere nota dopo nota, riff dopo.
La si deve sentire crescere dentro come un’onda che lentamente diventa incontenibile. Deve poi esplodere con tutta la forza dirompente de un urlo lacerante. Lo stesso urlo che il cantante non può trattenere. La voce roca mentre graffia la gola che non ce la fa più. Il fiato vorrebbe affievolire e spegnersi e invece recupera. L’urlo si riaccende. Pezzo dopo pezzo.
Gli spaccati psichedelici non aiutano a lenire la tensione. Danno la sensazione di cadere sempre più all’interno di un buco nero. Più si scivola e più si urla o si vorrebbe urlare. Inizialmente la voce non esce. Gli occhi si guardano attorno attoniti. Non ci soo appigli. Le pareti di note sono scivolose. Non sono amiche. Poi di nuovo. La medesima onda. Come un colpo di reni riporta verso l’esterno. Tutto diventa una corsa a perdifiato verso la luce. Una luce che non spegne mai del tutto, anche se pare allontanarsi per lasciarci al buio. Un brano che possa seguire la descrizione? Cathartic Fabric.
Intensissima. Un disco che non passa e non può passare inosservato. Un impatto sonoro rabbioso, immediato, diretto, distorto, che sostanza dei brani più che all’apparenza tecnica, anche se questa non difetta. Suoni potenti. Chitarra satura, basso presentissimo. Come detto, si deve prendere il meglio della scena di riferimento dal 90 al 94 e portarla ad oggi. Di contemporaneo c’è la produzione, la scelta dei suoni, l’intenzione e la cattiveria.
In conclusione:
quello dei Madness at home è un gran prodotto. Adatto a chi ha vissuto gli anni buoni del grunge ma non è nostalgico. Anzi, si chiede come si sarebbe potuto evolvere. Allo stesso modo è consigliato a chi cerca musica davvero dura, impenetrabile, che entra nello stomaco per uscirne con parte dei nodi che lo attanagliano. Di più non si potrebbe chiedere.