Epico. Solo così può essere descritto il disco L’Anguana e la gemma del mare ancestrale dei Sirgaus. Ma non epico nel senso ‘becero’ del termine. Siamo lontani anni luce dal genere inventato dai Manowar. In questo caso epico sta a significare grandioso, wagneriano, sinfonico. Tutto ottimamente legato al contesto narrativo dei testi, in italiano. Gli arrangiamenti sono complessi e sembrano derivare direttamente dalla musica classica alla quale è stato unito il metal. Molto altri ci hanno provato con alterne fortune. I nostri ci sono ben riusciti. Capacità compositive, tecnica, passione per l’argomento, capacità espressiva.
Tutto è racchiuso in questo concept dei Sirgaus. La base narrativa si fonda su una leggenda, quella de L’anguana, appunto. La storia narra che, fin dai tempi più antichi, nei boschi delle Dolomiti di tanto in tanto si possa udire il canto dell’Anguana: la mitologica Strega lacustre che risiede nei nostri monti nutrendosi dei sogni di coloro che abitano i vicini villaggi. Il racconto musicale è ambientato a Cibiana di Cadore nel 1661. Pur senza conoscere nei dettagli la vicenda, l’ascoltatore, come con una macchina del tempo, viene immediatamente catapultato in quell’epoca.
Le due voci, maschile e femminile, si alternano nella narrazione. Il cantato in italiano è fondamentale per visualizzare nell’immediato le immagini proposte dalla musica. La scelta di non utilizzare le voci in maniera ‘epica’, con vocalizzi acutissimi, posture da cantanti lirici, o arzigogoli vari, si dimostra vincente. Il focus resta sempre il racconto. Non si viene distratti da barocchismi inutili. Questo vale anche per la parte strumentale. Il concept pare essere stato concepito più come una colonna sonora che come un semplice disco. Le immagini emergono da sole durante l’ascolto.
E non potrebbe essere diversamente. L’epicità tiene banco anche in brani più lenti, quasi malinconici come La miniera oscura. Tutto è al servizio dei testi. Enfasi, accelerazioni, crescendo sono tutte tecniche che diventano umorali. Pongono i giusti accenti sugli stati d’animo dei protagonisti della vicenda. Il climax narrativo e musicale, sia come tensione che come complessità, viene raggiunto nel brano che presenta la protagonista, l’Anguana. Che segna anche l’ingresso della voce femminile. Qui i fiati, gli archi, le percussioni, dominano creando un’atmosfera giustamente pachidermica, ampollosa. Questa non si alleggerisce neanche nei passaggi più ‘aperti’. Pure in questo caso è l’orchestrazione a vincere.
Notevole e inatteso il passaggio del basso che segna un cambio di rotta che ingigantisce ancor di più l’andamento generale introducendo al solo. Un plauso a proposito dei solo. Tutti circostanziati, nessuna sbrodolatura inutile. Nessun virtuosismo non richiesto. Nessuna volontà di dimostrare la perizia tecnica della band. Cosa che, in ogni cao, si evince ascoltando il disco. Lodevole e notevole la produzione. Non deve essere stato semplice riuscire a coordinare tutti gli strumenti inseriti creando un insieme maestoso, pastoso senza mai essere caotico. Cadre nella confusione con così tanti timbri da gestire sarebbe stato molto facile. Il track by track è impossibile. Vorrebbe dire sminuire il disco che vale nel suo insieme.
In conclusione. Un’opera rock nel vero senso del termina questa dei Sirgaus. Complessa, vissuta, emozionante. Non di immediata assimilazione. Anzi. Servono davvero moltissimi ascolti per riuscire ad apprezzarne fino in fondo la maestosità, le trame. E, come spesso accade in questi casi, ogni ascolto farà emergere dettagli diversi. Non è un disco che si può ascoltare con leggerezza. Anche i fans del metal più sinfonico avranno bisogno di ‘sentirlo’, non solo ascoltarlo. Un lavoro indicato non per tutte le orecchie. Chi cerca leggerezza, solarità, brani orecchiabili che si ricordano dopo un ascolto, potrebbe trovarsi a disagio. In un certo senso si deve già essere predisposti ad un certo tipo non solo di suoni, ma di arrangiamenti. Sarebbe curioso sapere cosa ne pensano gli appassionati, gli esperti di musica classica.