Garageventinove

Come si fa a recensire una band che ha sulle spalle ben 29 anni di carriera? Ha avuto un’evoluzione stilistica che l’ha portata ad avere un carattere proprio. I riferimenti che ne hanno mosso i primi passi sono stati interiorizzati, portati ad un livello assolutamente personale. La strada che hanno percorso li ha portati alla maturazione completa. La sola opzione possibile è basarsi sulle emozioni che il gruppo riesce a trasmettere. È il caso dei GarageVentinove di Milano e del loro Il male banale. Per dare un’idea dell’ambito in cui il gruppo si muove potremmo indicare indie dark.

Mai come in questo caso l’indicazione è davvero meramente… indicativa. Le influenze sono talmente tante che diventa davvero difficile segnalarle. Si potrebbe citare Nick Cave & Bad seeds. Almeno per quanto riguarda le atmosfere generali. All’interno di queste però, di tutto. Un tutto personale. Suoni dilatati. Riverberi, chitarre compresse che si alternano a momenti più soft. Questi caratterizzati da un suono crunch che richiama l’indie. I brani su susseguono a formare un insieme oscuro, fatto di sfumature di grigio. Non mancano inserimenti elettronici che collaborano alla formazione di tappeti notturni. Se si volesse dare un’idea visiva, del tutto personale, potremmo paragonare il disco alla camminata notturna di una persona persasi nei meandri di una palude.

Attorno alberi spogli dai rami scheletrici. Una luna pallida, emaciata illumina i passi stentati. Il fango rende il cammino faticoso. Il nostro personaggio arranca, avanza senza badare alle difficoltà della sua condizione. Passo dopo passo incrocia detriti di umanità, ombre inquietanti. Sente rumori sinistri. Addosso una giacca scura che chiude con le mani. Le scarpe affondano nel pantano. Una leggera nebbia aumenta lo sgomento. Per avanzare si poggia ai tronchi degli alberi spogli. I pensieri vanno oltre la condizione attuale. Non sa come si è trovato in quella situazione. Vorrebbe solo trovare una luce che gli indicasse una direzione. La sua sola bussola è la luna. Non ci sono stelle.

Pensa alla propria vita. Ai propri demoni. Al fardello che porta dentro. Un sacco pieno di ricordi confusi che sembrano essere usciti a formare il panorama circostante. Questa atmosfera è rafforzata dal cantato in parte in italiano. L’alternarsi della lingua madre e dell’inglese aiuta l’ascoltatore ad immedesimarsi nel cammino. Improvvisamente il la sua coscienza prende forma nei suoi pensieri. È l’ingresso della voce femminile. Onirica, avvolgente, urlante. Gli ricorda ciò che è stato. Non gli indica la via. L’incalzante alternarsi di chiaro scuro accentuati dagli strumenti danno l’idea esatta dello stato d’animo del camminatore. Mari gialli potrebbe essere definito il climax del nostro racconto.

Ottimo lo special vocale, prima del finale, su sonorità arabeggianti. La disperazione del personaggio si fa tangibile in Down the river, il brano che più si avvicina a Nick Cave & Bad Seeds. Il duetto tra le due voci, su un arpeggio iterante, crea un’atmosfera ancora più oscura. La luna inizia ad essere coperta da sporadiche nuvole. L’acquitrino arriva alle caviglie. Il freddo da esterno è divenuto interiore. Nell’anima del nostro si apre una voragine che lentamente comincia ad avvolgerlo. Gli occhi si fanno pesanti. Il suono diventa distorto. Incalzante. La disperazione è l’unica forza che lo fa andare avanti. Più si inoltra tra gli alberi più il senso di smarrimento di fa evidente. La chiusura è affidata a Nervo scoperto. Il ricordo di una donna si fa presente. La voce femminile si fa evocativa. Note lunghe, ritmo lento.

Dissonanze qua e la fungono da sveglia. Improvvisamente emerge l’immagine di un corpo femminile disteso tra l’erba. Il nostro si guarda le mani. Tremano. Le sente ancora attorno al collo della sua amata. Ricorda la fuga a perdicollo tra gli alberi. La tecnica della band si evince dal songrwriting. Complesso, umorale, evocativo. Ottimo il lavoro della sezione ritmica. Basso e batteria variano su un tessuto languido, mellifluo adattando di conseguenza il oro andamento. Le loro linee accentuano l’atmosfera oscura generale. Spesso si trasformano in un sentore percussivo più che ritmico.

Concludendo. Sono davvero bravi i GarageVentinove. Sono riusciti a sviluppare uno stile unico, personale, riconoscibile. Non sono di facile approccio. Il disco non lo si può semplicemente sentire. Lo si deve ascoltare con attenzione. Ci si deve perdere nella palude che crea. Si deve vivere in ogni sua nota. È il solo modo per entrare nel mondo creato dalla band. È l’unico sistema per poterlo capire. Ma non basta. Serve anche una certa preparazione letteraria. Sono molti i libri sui i testi potrebbero fare da sottofondo. Un disco davvero notevole. Da avere.

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