L’omonimo debutto dei Dead Channel è potentissimo. Una vera cannonata in pieno petto. Un di quelle esperienze che ti toglie il fiato per l’intensità e la famigerata ‘botta’. Andando con ordine. I Dead Channel sono fautori di nu metal intriso di elettronica. Gli Slipknot che incontrano i Prodigy. La violenza è quella del combo di Corey Taylor. Anzi. Quella del secondo disco che li ha fatti esplodere come fenomeno. I nostri però hanno si preso la lezione, ma l’hanno fatta pria.
E con passaggi che sarebbe piaciuto scrivere agli stessi Slipknot. I romani non lesinano bordate ritmiche accompagnate da dissonanze e loop elettronici. Il tocco personale arriva dalle melodie più che abilmente inserite. In un contesto di per sé senza tregua, fanno capolino questi spiragli d’aria, questi cambi improvvisi. Le composizioni, come è facile intuire, ne guadagnano in dinamicità. Non che nella struttura non lo siano. Cambi all’interno dello stesso brano ce ne sono diversi.
I passaggi melodici donano quel qui in più che maggiormente fa apprezzare lo sforzo compositivo. Si potrebbe chiamare in causa anche il genio di Davin Townsed a sostenere il contrasto tra violenza e melodia. C’è gusto, non solo furia. Il disco è introdotto da 2999. Apertura orchestrale, space, degna di un film di fantascienza. Due minuti e 32 che portano subito nel pieno del tornado. La successiva Serial aggredisce senza dare la possibilità di difendersi.
Un’onda d’urto mitigata solo dalla melodia del bridge. Una mera illusione di calma. Subito si è ritrascinati nei gorghi volenti creati dalla voce rabbiosa. La melodia è una boccata d’aria mentre si è trasportati sempre più al largo. Una menzione va alla voce. Già convincente sul growl ma che riesce a fornire ottime prestazioni anche in pulito. Prosegue la corsa tra i flutti con Impulse.
Il tempo rallenta. Il che non è un bene. Il brano si fa pesante. È una catapulta che carica un pesantissimo fardello. Pochi attimi e questo viene scagliato con violenza verso il vuoto. Peccato che legato al masso ci sia l’ascoltatore. Si viaggia sopra una battaglia di onde consci della propria inevitabile fine. Pochi prima di schiantarsi un pensiero di speranza dato dalle tastiere. Ma l’impatto è inevitabile. E infatti, l’aggressione sonora continua senza tregua. La successiva Whatch do not touch è una fenditura tra due scogli. Il che con il mare in tempesta è un riparo forse non proprio consono.
Il sentimento dominante, di fatti, è l’angoscia. L’iniziale ritmo lento non fa altro che evidenziarla ancora di più. Così come la melodia sopra il contesto sonoro ultraviolento. Polyamory è una cavalcata industrial. Dissonanze, ritmi iteranti, suoni elettronici, alternanza voce pulita/growl. Il tutto al servizio di un brano degno dei migliori Ministry o i primi Meshuggha. Molto ben fatto lo stacco verso i ¾ con basso percussivo stile Korn, tastiera ben presente, voce recitata. La successiva Present è uno spiraglio di sole che pare squarciare il cielo plumbeo. Maestosa nella sua orchestrazione, da colonna sonora. Quasi 6 minuti che forniscono la giusta tregua all’ascolto.
La situazione torna su coordinate più tempestose con Life 2,0, un crogiuolo di elettronica e potenza delle chitarre. Anche in questo caso l’inserimento della melodia rende il tutto decisamente interessante, meno diretto, meno scontato. Connubio che accompagna il brano quasi fino alla fine. Ancora elettronica nella seguente Control uninstaller. Tutto al servizio della potenza. Come nei brani precedenti, la voce melodica cambia la prospettiva del brano. La continua alternanza dei sue stili del cantato fa meno lineare l’ascolto, e quindi più stimolante.
Cambio piuttosto brusco in vece con Floating in space. Meno violenza, più suoni dilatati, elettronici con frangenti più rock. Resta da sottofondo, in ogni caso, un’aria pesante, disturbante. In Asteroid, torna il crossover elettro metal con toni industrial, come titolo impone e in omaggio ai Killing Joke. Azzeccati i suoni dilatati del synth a dare proprio idea di spazio profondo. Con indoctrinator si riprende il passo precedente che porterà alla conclusiva 3000. una strumentale ambient. Il corpo senza forza del naufrago ascoltatore è riversato su una spiaggia sconosciuta. Senza forze, semi svenuto, senza fiato, ma vivo.
Concludendo. Grande disco quello dei Dead Channel. Certo non adatto a tutti. Anzi. Adatto a chi ha orecchie be allenate e palato altrettanto forte. Le capacità tecniche dei nostri non offrono molto spazio alle indecisioni di genere. È un disco, per quanto complesso nell’ascolto, diretto. O lo si ama o lo di odia. Non ci sono vie di mezzo. E la band neanche ne cerca. Da avere in discografia per gli estimatori del genere.