RadioSabir

Il crossover, per definizione, ha mille sfaccettature. Tra queste c’è anche quella di essere unito al dialetto. In questa direzione muovono i RadioSabir con il loro ultimo. Cunti e Mavarii pi megghiu campari. Il collettivo, perchè di questo si tratta, è un interessantissima realtà siciliana. Ed è proprio il dialetto trinacride utilizzato per i testi. Un sodalizio con la musica davvero molto ben riuscito. Il ritmo e la musicalità del vernacolo perfettamente si sposano con le basi strumentali. Per queste serve un discorso a parte. I mix sono talmente tanti che è impossibile indicarli tutti. Si passa dal rock all’elettronica, dalla musica popolare al metal. Tutto con un fluidità disarmante. Non si tratta di fluidità progressive. È proprio la costruzione dei brani che è sorprendente. Ogni singola canzone meriterebbe una trattazione a sé stante.

Si parte con Na buttigghia i vinu. Le suggestioni si muovono tra litanie locali, southern rock, il suono e il lavoro della chitarra, il rap che richiama i Gorillaz. Il cantato perfettamente rende l’idea della bottiglia di vino ingurgitata con una andamento strascicato. Si passa poi a U ferru. La base, grazie al basso, diventa molto urbana, funkeggiante. Non mancano inserti inattesi come il suono di una fisarmonica. Pregevole il break solo voce. Questo abbassa l’intensità della canzone che subito dopo riparte a vele spiegate. Ma i cambi non si fermano. Arriva un interludio quasi tibetaneggiante. La reprise porta poi alla conclusione. Si passa a Voodoo med. La voce un bambino introduce un ritmo fatto da percussioni.

Strumenti tradizionali si sposano con l’elettronica. Non esiste una vera base melodica. È la voce a tenerla in piedi. A metà la composizione lascia spazio a cantato e cori. Constante il lavoro della chitarra con interventi tesi a creare atmosfera più che a creare una ritmica. Con Ci voli tempu si cambia ancora. Ritmi sempre percussivi. Ma questa volta è il basso a guidare con una linea non diritta. Saltella sulle percussioni tessendo una tappeto solido ma non stabile. Ottimo cambio verso i ¾. Calo di intensità, si sentono eco mediorientaleggianti con l’ausilio di una scacciapensieri che introducono al finale. Con Ma cchi fai i RadioSabir trasportano in una festa dell’entroterra siculo. Qui si respira anche aria africana miscelata con la musica mediterranea.

Il ritmo è andante, incalzante, saltellante. È sempre l’effetto percussivo a tenere banco grazie ai continui cambi. Qua e là fanno capolino anche reminiscenze rhytm and blues con l’introduzione di strumenti arabi. L’oud fa da introduzione e filo rosso anche per la successiva U munnu sta cangiannu. Il ritmo generale rallenta notevolmente. Potremmo parlare di una ballata in tal senso. Base molto bluesy, cantato evocativo alterna voce maschile e femminile. Ma proprio quando pare che il brano abbia preso la propria strada, cambia direzione. L’intensità sale. I suoni si fanno più decisi. Le voci più urlate.

L’oud da solo chiude la composizione. A rivoluzione un si fa chi social è uno dei singoli dei RadioSabir che ha anticipato il disco. Da un certo punto di vista è il brano più ‘leggero’ fino a questo momento. Non mancano i cambi che contraddistinguono il lavoro ma sono meno impattanti. Il ritmo è sempre sostenuto anche quando gli strumenti si alternano o zittiscono per dare spazio alla ritmica. Anche questa risente di influenze del medio oriente. Con Iarrusa si torna su basi più caustiche, più rock non tanto per i suoni quanto per l’intensità.

Anche in relazione al testo che tratta delle donne del medio oriente vessate e uccise per voglia di emancipazione. Anche qui elettronica e strumenti tradizionali si fondono in un mix unico e coinvolgente nel ricreare atmosfere della terra della mezza luna. Si rallenta con 10600 iorn. Un malinconico racconto moderno. Basso, batteria, armonica e chitarra sono sufficienti per trasportare in un mondo di ricordi e rimpianti. La base, con i continui crescendo, passa dal blues al rock più arrabbiato. Elettronica, loop, strumenti ad arco introducono E resta ‘cca.

Torna l’hip hop per il cantato. La base inizialmente è minimale. Saliscendi su susseguono fino a metà canzone quando emerge uno spazio più dilatato contornato dal suono di strumenti tradizionali. Seggia sghemba chiude il disco con atmosfere più scure. Qui si sentono scorci cantati in inglese che si alternano al dialetto. L’andamento ripercorre lo stile dei RadioSabir con interludi sospesi tra musica mediterranea, elettronica e percussioni.

Concludendo. Il disco dei RadioSabir è un lavoro davvero immenso. La domanda che sorge spontanea è: come hanno fatto? Determinate soluzioni sono più che spiazzanti. Ci vogliono moltissimi ascolti per poter entrare nel disco. Certo, il ritmo cadenzato aiuta. Ma non è sempre uguale a se stesso. Un disco intenso sotto moltissimi punti di vista. Impegnativo e per i testi e per l’ascolto che ha più livelli. Impossibile fermarsi al primo, quello più immediato. L’ascoltatore non può adagiarsi su terreni stabili, sicuri. L’andamento generale è paragonabile alle onde del mare. Ora più forti, poi più deboli. Quando si crede di aver capito se il mare è calmo o meno arriva qualcosa di anomalo che sorprende. Un disco consigliato, consigliatissimo. Soprattutto a chi cerca nuovi stimoli, che pensa a come la musica sia un modulo espressivo senza confini, senza limiti, privo di qualsiasi barriera. Ad iniziare da quella linguistica.

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