Oggi il my opinion si avventura su un terreno decisamente accidentato, scivoloso e per questo ‘pericoloso’. Voglio affrontare il ‘fenomeno’ cover band. Esiste un’atavica diatriba tra il mondo cover e l’universo di chi propone musica originale. Una lotta, perché, purtroppo, di questo di tratta, che pare non vedere una fine. Eppure, dal mio modesto punto di vista, è uno scontro che non ha molto senso. Iniziamo da un fatto. Cover e musica originale sono due pianeti diversi. In quanto tali si rivolgono a due tipologie di persone e pubblico diverso. Probabilmente chi è abituato a seguire il primo, non è molto interessato al secondo. Mentre chi segue il secondo, potrebbe anche essere interessato al primo.
Questo perché il mondo cover si sviluppa su più livelli. Senza dare giudizi di sorta, ma è difficile mettere sullo stesso piano una cover/tribute band di un cantautore rock italiano, con una che invece tributa gruppi prog. Sebbene abbiamo senza dubbio entrambe la propria dignità. Anche per le cover, come per la musica originale, servono prove su prove, esperienza live, capacità tecnica. Mettere in piedi un tributo ai Meshuggha o alla Pfm non è come dirlo.
Dietro ci sono sempre dei musicisti che hanno bisogno di determinate capacità. Senza poi dimenticare che anche chi propone musica originale ha iniziato dalle cover, nella maggior parte dei casi. Altro punto di contatto, oltre alle capacità tecniche, è che suonare in una cover band può essere ed è un lavoro che impegna tanto quanto scrivere musica originale. Conosco frotte di professionisti che oltre al gruppo principale di musica propria, militano in diverse cover band. Il motivo lo conosciamo tutti. Si riesce a suonare più spesso. E arriviamo quindi a quello che potremmo definire il nocciolo della questione. Il fatto che esistono più locali che propongono cover di quanti ce ne siano che offrono spazi a band originali.
Se poi andassimo ad analizzare ogni singolo genere, la lista si assottiglierebbe in maniera a dir poco imbarazzante. Quindi. I musicisti coveristi non hanno certo meno dignità di chi propone brani propri. Ognuno limita al proprio livello di preparazione la proposta musicale. Se non sono in grado, non metto su una cover band dei Van Halen. Volerò un po’ più basso. Magari arriverà il giorno in cui ce la farò. Medesimo discorso se dovessi scrivere un disco hard rock tutto mio. Non cerco di richiamare lo stile di Eddie se non riesco. E così via. Se così è, dove è il gap tra i due mondi? La forbice, come tutti ben sappiamo, è creata dal pubblico e dai locali. Il primo è formato per lo più da persone che non vogliono rischiare. Non si tratta neppure di ‘cultura musicale’.
È più un vero e proprio modo di essere. Non rischio di sprecare il mio tempo libero ascoltando qualcosa che potenzialmente potrebbe anche non piacermi. Meglio andare sul sicuro. Soprattutto non faccio neppure lo sforzo di andarmi a cercare qualcosa di nuovo. Se ci sbatto contro va bene, se no, va bene lo stesso. Da una parte come discorso ci può stare. Ognuno è libero di impiegare il proprio tempo come meglio crede. Dall’altra c’è una falla all’interno della quale si insinua una manciata di persone che pur restando su questa linea, cerca qualcosa di diverso. Ed ecco il pubblico della zona grigia. Chi non disdegna né l’uno né l’altro modo.
Noi undergroundiani è a loro che dobbiamo rivolgerci. Inutile stare ad accapigliarci dicendo che per colpa della cover non si riesce a suonare. È un pubblico che non ci interessa. Mai verranno a sentire una nostra esibizione. Come mai noi andremmo a sentire qualcuno che suona qualcosa che non ci piace. Sono come l’acqua e l’olio. Non si mischiano. Dalla zona grigia, però, possiamo trovare soddisfazione. Anche solo riuscire a portare una manciata di ascoltatori in più sarebbe un successo. Come possiamo fare? Prendendo atto di come stanno le cose. Ne abbiamo già parlato. Viene da sé che il gestore di un locale preferisca riempire la propria birreria piuttosto che vederla mezza vuota.
E a noi va ben così. Siamo noi i primi a doverci ingegnare per riempirlo il posto. Prima riempiamone uno piccolo, poi cresciamo. E alla fine riempiremo gli stadi. Ma ci si deve arrivare. E per farlo serve un lavoro costante, non autoconclusivo. Non autoreferinziale. Men che meno rivolto esclusivamente al nostro mondo. Se ben notiamo il nostro pubblico non è dissimile da quello del mondo cover. Non viene ad ascoltare chiunque. Va solo ai concerti di chi conosce abbastanza bene. Il moto che spinge in questa direzione, spesso, è lo stesso del non rischiare. Poi intervengono altre dinamiche che non sto ad analizzare. Troppo grette, volgari quanto inutili e dannose.
Il problema, tuttavia, è che fino a quando non riusciremo a scardinare proprio queste dinamiche, resteremo bloccati. Come eliminarle? Con una sana presa di coscienza. Siamo tutti nella stessa barca. Apparteniamo tutti ad un mondo sovraffollato dove emerge si il più capace, ma anche chi riesce meglio a vendersi. E con questo torniamo sempre all’origine del nostro discorso. Le nostre mancanze non sono sempre e solo imputabili all’esterno o a qualcun altro. Iniziamo a prenderci anche le nostre di responsabilità e vedremo che le cose andranno meglio. Cominciamo ad apprezzare quello che abbiamo e stiamo certi che arriverà anche quello che manca. Ma fino ad allora, dobbiamo lavorare su noi stessi.