Pesanti, potenti, incazzate e melodiche. Queste sono le Maneaters di Ordinary Bitch. Disco non recentissimo, ma che non ha perso un oncia di potenza. Il lavoro mette subito le carte in tavola. Point break è un tempo lento mastodontico, cupo, claustrofobico. Non manca uno stralcio di melodia, tuttavia insufficiente per poter ‘illuminare’ la canzone. L’incedere è davvero pesante, sia come riffing sia come suoni. La voce alterna momenti rabbiosi a frangenti più calmi.
Ottimo il duetto con una seconda voce pulita. Dopo un’intro degna dei miglior Black Sabbat, si apre lo spiraglio melodico. Apertura che viene sottolineata anche dal cambio di accordi. La composizione prosegue su questa bella alternanza. Dopo la metà ennesimo cambio. I tempi si dilatano, rallentano.
La voce si incattivisce. Strappata in stile hardcore. Fino alla fine. La successiva Rised non fa altro che sottolineare il cammino nell’oscurità che l’ascoltatore ha intrapreso. Riferimenti stilistici diretti non se ne possono dare. Si potrebbe parlare di Black Label Society, ma sarebbe fuorviante. Le aperture melodiche poco hanno a che fare con la band di Zakk Wilde. Sono proprio queste a sorprendere in Rised. Non sono canoniche, melodiche nel senso classico. Sono sofferte, evocative.
Gli strumenti si adattano creando basi armoniche ma con un fondo sempre inquieto. Sul finale il brano accelera leggermente per dare supporto alla voce arrabbiata. I don’t wanna be like you apre su linee più dirette. Mid tempo cadenzato. Quello che davvero caratterizza sono le due voci. Riescono a tessere atmosfere davvero coinvolgenti. Gli strumenti sono un ottimo supporto per un brano umorale, non lineare. Diversi sono i cambi che si alternano al suo interno.
Beggar mostra un lato più stoner se vogliamo. Basso in evidenza. Le due chitarre si separano. Una in palm muting, metronomica, la seconda in armonizzazione sulle note alte. Notevole la voce. Parte con rabbia e si inasprisce col dipanarsi della composizione. L’incalzare della ritmica nei momenti di maggiore furore perfettamente si adatta al contesto narrativo. Così come la seconda voce che fa da contrappunto. Si prosegue con Dead End. Atmosfere cupe, suoni pesanti.
Ancora una volta è il basso a fare la differenza con linee a se stanti. Più che degna di nota l’inserimento della seconda voce come semplice vocalizio. Riesce ad aumentare il senso pachidermico complessivo. Con la successiva Raining Days le cose non vanno meglio per il navigatore di questo disco. La luce ancora non si vede.
Anzi. Sale l’inquietudine. Sempre ritmi lenti per sottolineare le atmosfere. Alternanza tra voce cattivissima ed evocativa. Lodevole il lavoro sulla strofa. Accompagnamento minimal che perfettamente rende il testo. Sono sentimenti disturbanti ad accompagnare fino alla fine. Ritmo più sostenuto nella successiva Egorant. Reminiscenze degli Alice in chains fanno capolino qua e là grazie al riffing della chitarra e alle aperture melodiche. Si distingue ancora una volta il quattro corde che spesso viaggia su proprie coordinate.
Da segnalare il rallentamento prima del finale. Down with the bride è il penultimo brano di questo tour nei gironi più oscuri dell’animo umano. Ritmi sempre lenti, montagne che si spostano. Emergono alcune dissonanze che meglio acuiscono l’atmosfera generale di cupezza. Riff iterante nella strofa dona quel pizzico di psichedelia che non stona, anzi. Una menzione alla voce che riesce a rimanere sporca per tutta la durata del brano. Ai ¾ riff discendente, break percussivo con voce ipergraffiata.
Concludendo. Un disco rabbioso, di quella rabbia che sale dalla consapevolezza, dalla presa di coscienza di trovarsi in situazioni che non piacciono eppure le si deve affrontare. Allora ecco che arriva la forza interiore. Prende tutti i demoni di petto, li annienta, li dilania. Con fatica, con violenza. Eppure alla fine esce vincitrice. Piena di cicatrici, ma vincitrice.
Ecco il sentimento che emerge dal lavoro delle Maneaters. Senso di ribellione. Non è un disco né immediato né facile. Al primo ascolto risulta disorientante. Come si aprono le porte della percezione, però, ci si rende conto. Ci si accorge di essere finiti nella parte più sconosciuta di noi stessi. Con i suoi incubi e le sue paure. Saremo capaci di lottare fino all’ultima canzone per uscire da quello che potremmo definire un viaggio iniziatico?