Grande grande lavoro quello dei Circle of Witches. E non potrebbe essere altrimenti considerata la carriera quasi ventennale della band. I nostri sono fautori di un heavy doom pregevolissimo. L’evoluzione stilistica li ha portati con quest’ultimo lavoro, Natural Born Sinners, targato 2019, a sonorità decisamente più heavy con ritmi più sostenuti rispetto al passato. Questo nuovo capitolo è incentrato sul tema della rivolta e di alcuni ribelli del passato come Lucifero, Spartaco, Anton LaVey, Giordano Bruno. Il disco apre e mette subito le cose in chiaro. Potenza, tecnica, melodia, suoni decisi.
Caratteristiche che pervadono tutto il cd. Più che ottima la produzione che è riuscita a valorizzare nel migliore dei modi i brani grazie al sapiente lavoro di Alex Azzali e Nicholas Barker (CRADLE OF FILTH, DIMMU BORGIR, TESTAMENT). Tongue of misery è un brano spedito, diretto. Il riff iniziale di chitarra riporta alla mente i migliori Judas Priest. Il cantato melodico poggia su una base di accordi lunghi con batteria incalzante. Ed è proprio quest’ultima a fare una gran differenza su tutte le tracce. È indomabile. Un mare in tempesta. Sempre in movimento. Non si limita a doppiare ritmicamente gli strumenti. Tratteggia linee proprie che danno il colpo decisivo di potenza che spettina.
Altra nota va alla voce. Sempre circostanziata. Consapevole della propria potenza e, soprattutto, dei propri limiti. Non cerca mai di strafare, di andare sopra le righe. Anzi. Sfrutta alla perfezione le timbriche basse. Se si volessero dare dei riferimenti potremmo chiamare in causa Danzig, così come Michael Poulsen e, ancor di più, Messiah Marcolin. La canzone al suo interno non manca di cambi più che interessanti. Come ad esempio il passaggio solo rullante che anticipa il primo breve intervento solista della chitarra. Caratterizzanti anche i cori che fanno da contrappunto nel ritornello.
Cambi ma non calo di velocità, che resta costante pur con variazione di intensità. Azzeccato il break centrale. Solo strumentale basato su un riffing che richiama l’introduzione. Il solo è basato, per la prima parte, su tapping mid tempo melodico. La chiusura è affidata all’ingresso del wha e a note più incisive. Si rallenta leggermente con The black house. Sempre suoni incalzanti, ritmiche serrate. L’introduzione è percussiva, per la batteria. Grazie alle ritmiche cadenzate emerge anche il lavoro del basso. Ottima alternanza tra suoni ora più rotondi, ora più metallici e martellanti. Il brano è un terno inarrestabile. I rallentamenti invece di alleggerire, ne appesantiscono ancor di più l’andamento.
È il caso dello stacco che anticipa il solo. Doppia cassa a sostegno di un’intervento solista non veloce né troppo lungo. Reprise sempre su ritmi da headbanging. L’utilizzo del doppio pedale è ben dosato e mai fuori posto. Richiami ai Volbeat per la successiva Giordano Bruno. Ottimo il riffing di chitarra ben divisa tra ritmica e solista. Incisivo il cantato che, grazie alla pregevole melodia del ritornello, si ricorda già al primo ascolto. La base resta sempre impenetrabile. Lodevole l’ingresso dei cori di richiamo gregoriano. Ma non è il solo elemento che stupisce. Accanto a questo c’è lo special pre a solo a circa metà canzone.
A sostenerlo esclusivamente batteria e basso, nel primo passaggio. Le chitarre si limitano ad accenti lunghi. L’a solo si ben si sposa con l’atmosfera. Inizia cadenzato per poi inserire sprazzi accelerati, mai eccessivi. Il rientro è sulla strofa cadenzata. Il ritornello accompagna alla chiusura. Più stilisticamente doom la successiva The oracle. Ad introdurla cori e arpeggio distorto, non dissonante. Voce evocativa. La canzone è un nuovo macigno che si muove a passo lento.
Una marcia di guerra con aperture melodiche create dalla voce. Melodia non significa luce. L’oscurità regna per praticamente tutto il disco. Su The oracle un richiamo di attenzione va sicuramente posto sul lavoro della batteria. Questa alterna sapientemente accelerazioni e rallentamenti, doppia cassa, accompagnamenti più lineari a metriche proprie. Il solo è lento e melodico. La sola accelerazione è sul finale. Si prosegue con First born sinner. Si rialzano i toni, pur senza mai eccedere. È sempre un riffing potente a dominare. Come coordinate si torna in mood Judas. Le chitarre sono irrefrenabili.
Macinano note su note. Continui sono i cambi ritmici. Notevole l’a solo. Questo si basa sul cambio più repentino di tutta la canzone. I tempi rallentano, batteria in poliritmia, base strumentale tessuta grazie a note lunghe. Il rientro è sulla strofa. Il ritornello in crescendo porta al finale. Si arriva così a metà dico. È il turno di Spartacus. Ancora una volta un cambio. Basso e batteria sono le guide del brano. Le chitarre inizialmente accentano fino ad entrare in ritmica piena con l’ingresso della voce. L’incedere è marziale. Da sottolineare l’utilizzo dei cori in alternanza con le scariche di doppia cassa. Interludio solista sempre su coordinate lente, il che mantiene inalterata la cadenza potente dell’insieme.
Verso i ¾ c’è un’inversione di priorità. Questa volta sono le chitarre a fare da guide. Basso e batteria fungono da supporto. Ultimo intervento solista e chiusura. Sono impressioni più contemporanee quelle che caratterizzano la successiva Your Predator. Stop and go con sezione ritmica in evidenza. Riff di chitarre cadenzato prima su registri alti per poi poggiarsi sui bassi. Il cantato ben si destreggia tra i frangenti ‘spezzettati’ della strofa e i tempi pieni del ritornello. La sezione ritmica si impadronisce nuovamente della scena grazie ad un solo affidato al basso.
Ancora una strofa e a solo di chitarra. Scale armoniche minori danno un perfetto tocco esotico. Death to the inquisitor si basa su cadenze ritmiche mid tempo caratterizzate di diversi stacchi che aprono a brevi arpeggi. Un lungo a solo conduce ad uno special fatto solo di basso e batteria. Le chitarre rientrano con brevi interventi per poi esplodere sul ritornello. Chiusura affidata ad una cavalcata di doppia cassa. La chiusura del disco è affidata a You belong the witch. Il fantasma dei Mercyful Fate si fa presente. Le chitarre si dividono il lavoro tra linee melodiche e ritmiche. Il brano si muove agilmente su queste coordinate senza far mancare cambi. Il tutto in salsa Circle of Witches.
Concludendo. Il cambio di passo, non facile, come tutti i cambiamenti, ha sicuramente aiutato i Circle of Witches a prendere maggiore consapevolezza dei propri mezzi e delle proprie potenzialità. Tutta qualità espresse molto bene in questo lavoro. Non un disco immediato. Seppure caratterizzato da sonorità ben precise, servono diversi ascolti per riuscire ad interiorizzarlo. Un lavoro che trasuda passione, tenacia, abnegazione. Soprattutto, che trasmette la determinazione nel trovare il modo migliore per potersi esprimere. In maniera ribelle, come tutti i protagonisti delle liriche.