E forse uno dei problemi del mancato decollo della musica indipendente nostrana è proprio questo. Lo abbiamo già detto cosa significa underground. O, almeno, cosa dovrebbe voler dire. Meglio ancora, la valenza che ha nella maggior parte del resto del mondo. Mi spiego. In molto altri paesi le band ‘emergenti’, virgolette d’obbligo, non sono considerate tali. Vengono semplicemente annoverate nel panorama musicale generale. Questo ha una conseguenza rilevante sul come questi gruppi sono percepiti, in patria e fuori. Facendo parte di un vasto mondo, se meritevoli, riescono anche a conquistare le copertine delle riviste di settore.
Sfogliando i corrispettivi italiani degli ultimi 40nni rarissimamente mi è capitato di vedere la stessa cosa. Anzi. Tra quelle pagine il panorama italiano è sempre stato considerato come ‘minore’. I gruppi sono spesso stati visti come amatoriali. Lo spazio che occupavano, sempre molto risicato, tante volte era in bianco e nero, se non su carta riciclata. Una comunicazione chiara. Oggi capita la stessa cosa. In moltissimi siti a tema le band nostrane sono messe in uno spazio a parte. Tante volte il settore in cui vengono infilate è etichettato come ‘demo’ oppure ‘autoproduzioni’.
Già questa terminologia penalizza i dischi e gli artisti considerati. Perché i prodotti italiani non sono mai all’altezza? Perché non devono essere portati sugli scudi come esempio di ottima musica? Eppure questo accade con i corrispettivi stranieri. Quelle che oggi sono band mainstream inizialmente erano underground. Come è ovvio che sia. Il punto è che anche in quel iniziale frangente della carriera sono state considerate nuove sensazioni, eccezioni. Ricordo quando uscì la primissima intervista a Slash. I Guns ‘n Roses non avevano ancora pubblicato Appetite for destruction. All’epoca girava, in Italia quasi introvabile, il loro primissimo disco. Un live di quattro pezzi che poi è stato ripreso come seconda parte del fortunatissimo Lies. Live like suicide era il titolo.
Ebbene, fin da quel momento la band fu esaltata come fautrice di un nuovo stile, una ventata di novità per il panorama. Vero, verissimo. Ma era una band emergente. Perché lo stesso trattamento non è mai stato riservato a band italiane? Eppure di gruppi meritevoli ce n’erano a bizzeffe. Per quale motivo i loro dischi sono stati considerati di minor valore, sempre derivativi? Abbiamo sempre aspettato il riscontro estero per poi poter dire che un gruppo è valido. È successo con tutti i nomi che sono riusciti ad emergere. Di contraltare le stesse band sono state etichettate, dai seguaci del movimento, come commerciali, vendute, traditrici.
Invece di utilizzare quelle porte aperte verso un mercato più ampio che potrebbe valorizzare tutta la buona musica, c’è stata una chiusura. Eppure, credo, è quello che vorrebbero molti gruppi, vedere riconosciuto il proprio lavoro. Una volta il finire sulle copertine delle riviste era importante, fondamentale. Erano il solo modo per essere ‘visti’. C’era anche il problema della distribuzione. Aveva certo più possibilità di essere conosciuto fuori confine chi poteva distribuire i dischi in altri paesi. Molti hanno tentato la via diretta, organizzare tour faticosi, dispendiosi quanto alla fine inutili, oltre oceano.
Oggi tutto questo non vale più. Oggi c’è internet, youtube, spotify, i social. Insomma, tutte le possibilità per crescere. Perché, allora, gli unici che ancora si ostinano a schiacciare la qualità della musica prodotta in Italia sono proprio quelli che la dovrebbero esaltare? In moltissime recensioni si legge di quanto il prodotto sia si buono, il gruppo bravo, però la produzione resta casereccia, approssimativa. Mi riferisco ad una band in particolare che sulle nostre pagine è stata recensita in un modo. Su altri siti in un altro. Pur riconoscendo la validità della proposta, la registrazione lascia a desiderare.
Quando non è assolutamente vero. Qual è il motivo che spinge a cercare più gli aspetti che non vanno in un disco italiano rispetto a quelle valide? Sono quasi certo che se la band in questione fosse venuta da desertolandia la recensione sarebbe stata differente. Il motivo? Non c’è. Se stiamo a ben vedere, moltissime band che noi consideriamo ‘arrivate’ non sono molto dissimili da gruppi nuovi nostrani. Stiamo parlando in ogni caso di un contesto di nicchia. La sola giustificazione è che sono straniere.
È il motivo per cui in Italia ci sono più fans di Marylin Manson che dei DeathSS. I nostri hanno iniziato a fare quello che ha combinato il reverendo molto tempo prima. Ma nel paese sbagliato. E non per una questione culturale. Semplicemente perché i pesaresi non sono mai stati considerati a modo. Sono diventati un mito un riferimento nell’underground. Solo nell’underground. Soltanto ultimamente stanno avendo riscontri maggiori. Grazie al supporto di band straniere. Invece dovrebbe essere al contrario, considerata la carriera. Eppure questo vizio non si ferma.
Una nota emittente radiofonica, di recente costituzione che porta il nome della canzone di un cantautore italiano, ha deciso di non programmare musica italiana. Scelta che non può essere messa in discussione. Almeno fino a quando si tratta di pop o trap o artisti spudoratamente commerciali. Discutibile invece quando trasmettono band al primo disco provenienti da altri paesi che nulla hanno da insegnare alle nostre. La si può contestare nel momento in cui intervistano i Maneskin. Non per la band in sé, ma perché allora non è vero che non vogliono musica italiana. Musica italiana no tranne se ha riscontri.
Mentre band straniere si anche se riscontri ancora non ne hanno. Per tutto questo forse non dovremmo più parlare di underground ma semplicemente di rock, metal, indie italiano. Autodefinirci underground, in Italia, è controproducente. Ci si autoghettizza. È un po’ come l’inserimento delle quote rosa in politica. Non hanno aiutato a portare più donne nel campo. Hanno solo evidenziato un intero genere come minoranza. Una scelta decisamente discriminante. E discriminante è l’atteggiamento di molta stampa specializzata nostrana. Per andare contro tutto questo TD fa quello che fa.
Esattamente per questo dedico le copertine a band che lo meritano. E lo meritano perché i lettori lo dicono. Non è una scelta calata dall’alto. Si tratta di una decisione condivisa. Questo è underground. Forse è il solo significato valido in Italia, di underground. Condivisione, collaborazione, unione. Ed è per questo che non ci si ferma. Anzi. Si cercano sempre nuovi modi per promuovere gli artisti del nostro mondo. Questo è il motivo per cui dico che dobbiamo aprirci. Certo, è una battaglia lunga e faticosa, ma necessaria. È un’ingiustizia, un sopruso che stampa specializzata stronchi sul nascere ottima musica.
Bisogna anche ammettere le mancanze dei gruppi. Molti comunicano in modo errato e approssimativo. Ma ne abbiamo già parlato. Che si possa uscire da questo circolo vizioso è dimostrato da molti gruppi. Uno su tutti i Signs Preyer che stanno ottenendo ottimi riscontri fuori confine. Sono riusciti a ‘battere’ la concorrenza straniera con un prodotto di qualità. Un prodotto non molto dissimile da moltissimi altri. Ergo, la strada c’è. Lastricata di battaglie, lotte a suon di comunicazione e diffusione. Tuttavia uno scontro vincibile. Basta andare tutti nella stessa direzione, credere tutti nello stesso potere del cambiamento. Quindi, underground si, ma fino ad un certo punto.