Uno degli aspetti più interessanti, tra gli altri, del lavoro de Il ciclo di Bethe è l’eterogeneità. L’incredibile e, per nulla scontata, capacità di essere riusciti ad adattare il contesto sonoro a quello narrativo. Ma non solo. I nostri hanno trovato l’accompagnamento perfetto per le voci coinvolte. Essere capaci di scegliere il genere migliore per la voce coinvolta, non è facile. Né, men che meno, banale. Ci sono riusciti. Questa azzeccatissima scelta ha conferito al disco un valore ancora superiore.
Sbagliare questo passaggio avrebbe potuto indebolire in modo sostanziale tutto il disco. Non è accaduto. Anzi. Come da ammissione degli stessi artisti coinvolti, il disco in questione “rappresenta “tutto lo sporco degli anni ’80 e ’90 in una super combo novecentesca”. E questo vale sia per le tematiche trattate sia per i suoni utilizzati.
Il lavoro non è ascrivibile ad un solo genere. Al suo interno si viaggia felicemente tra lidi acustici inframezzati da scariche elettriche indie, mitragliate metal, frangenti cantautorali. E si sente fin dal primo brano. Special guest Militant A degli Assalti Frontali. Base praticamente metal. Chitarre ipercompresse, ritmo cadenzato, batteria percussiva.
Si alternano, su una frase iterante, voce femminile e voce maschile. Nella ‘strofa’ una voce narrante con effetto megafono. Un macigno che rotola da una montagna. Tastiere disegnano la via che viene abbattuta dall’enorme pesantezza generale. Il solo di chitarra è acido e chiude il brano. Senza respiro. Andrea Chimenti degli AFA è la voce portante della successiva L’erba alta. Arpeggio semidistorto, seconda chitarra rumorista. Accompagnamento ritmico minimale.
Batteria con cassa e bacchette sul bordo del rullante. Basso con note lunghe. L’insieme richiama Pierpaolo Capovilla. Non c’è un cantato. È una narrazione. Assente la divisione canonica strofa ritornello. La voce è un flusso senza ostacoli. Circa a metà un cambio inatteso. La batteria entra con ritmo pieno, sempre non lineare. La voce diventa diplofonica. Il ritmo resta costante pur salendo l’intensità della composizione. La title track riporta a sonorità grunge sulla scia degli Alice in chains. La voce di Ilenia volpe fa da luce in questo aggrovigliarsi di ritmi. La batteria è inarrestabile.
Ritmo spezzettato ricolmo di stop and go. Come da premessa, è l’eterogeneità a vincere. E il Ciclo di Bethe non fa eccezione. Circa a metà cambio radicale di passo. Si fermano le distorsioni. Entra un piano. Solo piano e voce. Il cantato è contraddistinto da una sola frase. Improvvisamente si riparte. Uno schiaffo in piena faccia le chitarre. Chiusura in scemando.
Adhan vede l’utilizzo in apertura del sample di voce: El Adhān del muezzin Abdelmajid Salama Sarihi. Questo già da idea delle coordinate mediorientaleggianti del brano. Così è. Ritmo, accompagnamento, intenzione vengono direttamente da una via di Istambul. All’imbrunire. Poco più di un minuto per un viaggio di migliaia di chilometri.
Riccardo Sabatti degli This Eternal Decay fa da doppia voce su Suicidio rituale giapponese. Testo caustico, militante, politico. L’intensità della composizione è elevata grazie alle chitarre piene e il basso distorto. Ottima alternanza con passaggi dissonanti. Il riff dominante è iterante fino all’apertura del ritornello. Secondo notevole break prima del solo. L’avanzata poderosa non si arresta.
Il solo si comporta di conseguenza andando ad ingigantire ulteriormente la massa sonora. Potremmo chiamare in causa i Sonic Youth come riferimento stilistico. “Materiale sempre resistente” è una reinterpretazione, con la voce di , Fabrizio Tavernelli degli AFA, del canto popolare partigiano “Con la guerriglia”. Poco più un minuto di solo chitarra e voce. Se non basta porta il disco su binari oscuri. Ritmi lenti, arpeggi in crunch, batteria minimale ma mai ferma. La voce non urla. È evocativa. Ma è solo u’intro.
La canzone esplode sotto il peso dei synth e dei riff granitici di chitarra. Basso pulsante e tastiere riabbassano i toni. Rientra l’arpeggio iniziale. La seconda chitarra è un eco lontana che perfettamente si adatta al contesto narrativo. L’alternarsi tra le due parti dona una fluidità incontrollabile all’insieme. La voce sul finale si adatta alla parte più pesante. Si alza di intensità in un costante crescendo che porta al finale. È poi il momento di Ferretti e Zamboni divisi a Berlino.
Il brano fa riferimento al ‘divorzio’ tra Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, fondatori degli ex CCCP, CSI. Un punto di vista sull’accaduto che ha segnato irreparabilmente il mondo musicale italiano. Il cantato omaggia le band dei due. L’accompagnamento è più incalzante, massiccio e contaminato. Si prosegue con Novecento con la voce di Miro Sassolini dei Diaframma. Introduzione elettronico/orchestrale. Un po’ 1984 dei Van halen un po’ ClokDva. Calmati i clangori elettronici aprono le note di un piano.
Ad accompagnarlo una cove evocativa, intensa, coinvolgente. Al piano si affiancano archi e un violino solista. Poderoso l’ingresso della voce maschile. Base minimal, echi, aura wagneriana. Testo conseguenziale. Il disco chiude con I love Berlin. Un omaggio in salsa kraut rock d’annata alla capitale tedesca. Qui ancora si sente l’influenza di Ferretti nella metrica del cantato.
La base è un mix di punk, techno e hard rock. Ottima l’interpretazione della voce che incalza, alternando stralci più narrativi a fughe melodiche. Il finale è una fuga elettrica. Novecento parte II è un omaggio alla Berlino più industriale e tecno. Voce narrante di Umberto Palazzo – voce su “Novecento, atto II”. Riccardo Sabetti – chitarre; basso e samples su “Novecento, atto II. Un brano duro, come musica e testi. Le due voci ottimamente rendono le atmosfere cupe del disco.
Friedeman è il brano più punk e diretto del disco. Non mancano in ogni caso alternanze tra parti elettriche e movimenti più elettronici, fluidi, e tecno. A fare la differenza è sempre il lavoro della batteria. Tecnico, variegato, sempre perfetto. Maria Desiderata riporta su lidi più ‘dancerecci’, se così si può dire. Batteria in levare, voce melodica, tastiere lunghe in odore di darkwave. A metà strada tra The cure e i Cult.
Concludendo. Ottimo lavoro quelle del Ciclo di Bethe. Variegato, eterogeneo, pesante quanto basta e nei momento giusti. Perfettamente prodotto. Un insieme di suoni che forma una gigantesca onda travolgente senza essere caotico. L’intenzione dei musicisti, probabilmente, è stata la sola volontà di esprimersi. Non ci sono ostentazioni, prove di ‘forza’, anche se ci sarebbero potute essere considerata l’esperienza di tutti i membri della band.
Invece la concentrazione maggiore è sul contesto narrativo, sulla sua intensità emotiva. Assenti nostalgie stilistiche o qualsivoglia senso di rivalsa. È un disco crudo, onesto, senza fronzoli. Da ascoltare molte volte per poterlo apprezzare. Ascoltarlo senza fretta, perdendosi nei meandri fisici del suoi solchi. Consigliato a chi cerca sonorità non banali, un ottimo utilizzo della lingua, testi non scontati.