Tsubo

Recensire i dischi grind è difficile. Per tanti motivi. La dinamicità, la tecnica, l’ipervelocità, il cantato. A volte la produzione pessima. Quindi per poter descrivere il disco degli Tsubo mi avvarrò di una metafora letteraria. La sola che, credo, possa riuscire a rendere un po’ l’idea di questo lavoro. Ascoltare Capitale umano significa immergersi, da una parte, in quelli che sono i principi che hanno ispirato il genere. Primo tra tutti la denuncia sociale. Dall’altro essere risucchiati da un disco complesso che ha fatto tesoro dell’evoluzione del genere inglobando anche altre influenze. Questo sono evincibili solo ripetutissimi ascolti. Quando il disco è stato interiorizzato, o quasi, saltano subito all’orecchio.

Ma si è parlato di una metafora letterari. Ebbene, il solo autore che mi è venuto in mente possa ‘adattarsi’ a quanto espresso dagli Tsubo, è Clark Ashton Smith. Chi ne conosce l’opera può immaginare che cosa intendo. Per chi invece non lo dovesse conoscere, Smith è un autore fandom di inizio del secolo scorso. Uno dei due padri ‘spirituali’ di Lovecraft. Le caratteristiche dei racconti di Smith sono un perenne alone cupo, una cappa maligna e malvagia che pervade ogni singola riga. La lotta contro entità mostruose, puro concentrato di male, delitti efferati, costrizioni, sacrifici umani. Il riferimento, nello specifico, è al racconto Il dio dei cadaveri.

Se si ascolta il disco leggendo questo scritto, si noterà come ne sia la perfetta colonna sonora. Il racconto narra della lotta di un uomo prima contro un negromante potentissimo, poi contro lo stesso dio dei cadaveri. Il tutto si svolge in un contesto oscuro, opprimente, dove sembra non esserci luce o benchè minima possibilità di fuga. È il medesimo concetto che esce dai solchi degli Tsubo riversato a livello sociale. La società ci sta schiacciando in modo così definitivo da non avere alcuna possibilità di uscita. Siamo solo Capitale Umano.

La discesa all’interno del tempio del dio mangiacadaveri è come essere lanciati in un mare di pece. Ci si muove lentamente, in modo ‘pesante’ ogni passo è ostacolato. Così la musica dei nostri. Pesante, oscura, contorta, ricca di facce distorte. Una volta dentro emergono i primi ostacoli. In primo luogo, il non sapere dove andare per trovare ciò che ci cerca. I brani degli Tsubo perfettamente evidenziano questo smarrimento. Tutt’attorno solo oscurità. Fruscii, sussurri, maschere orribili, personaggi incappucciati. Odore di morte. La lotta non è solo contro quegli esseri sconosciuti.

È anche e, soprattutto, contro se stessi. Contro la voglia di fuggire senza poterlo fare. Andare via vorrebbe dire venire meno ai propri principi di essere umano. Questo è un altro aspetto che nelle canzoni del disco è sottolineato. Il reclamare la propria parte umana, la propria giusta collocazione all’interno di un ecosistema che non dominiamo ma di cui facciamo solo parte. Più il protagonista del racconto si avvicina all’apice della sua ricerca, più è circospetto, accorto, in preda all’orrore per quello che mano a mano scopre. Allo stesso modo siamo noi secondo gli Tsubo.

Più prendiamo coscienza del nostro essere intrappolati, più non ci fidiamo, maggiore è la nostra circospezione. Tuttavia il nostro non si perde d’animo. Seppure consapevole di essere in inferiorità numerica e male armato, prosegue nel suo cammino. Noi seguiamo lo stesso destino. I clangori, i ritmi serrati, la voce gutturale, non sono altro che riflessi di una condizione sempre più astringente alla quale non sappiamo come ribellarci. Le urla del cantante, sono le nostre urla. I ritmi ultraveloci sono quelli del nostro cuore, della nostra coscienza che si agita. Lentamente il protagonista riesce a trovare la sua bella. È distesa su un tavolo tra altri cadaveri. Ma è ancora viva. Deve portarla via.

Qui inizia la seconda parte dell’avventura. Quando siamo a metà disco circa, tutto il contesto non ci sembra più coso ostico. Anzi, pare quasi di poterlo reggere e leggere. Ora dobbiamo solo arrivare in fondo. Il giovane, per recuperare la sua amata, deve sottrarle dalle grinfie del negromante che vuole sacrificarla al dio mangiacadaveri. Siamo noi che, attraverso l’intensità della musica, riusciamo a guardare negli occhi i nostri incubi, le nostre paure. Il racconto infonde la ragazzo tutto il coraggio necessario per affrontare gli aguzzini, con tutti i limiti di cui sopra.

Noi siamo allo stesso modo inermi davanti a precise situazioni eppure non ci arrendiamo. Non possiamo e non dobbiamo arrenderci, dice la band. L’intensità dei brani non rallenta. Escluso qualsiasi attimo di relax. Lo stesso stato d’animo del protagonista. Ormai è allo scoperto. Occhi negli occhi con gli aggressori. Lotta furiosamente. Viene disarmato eppure non si arrende.

Neppure di fronte ad armi di cui ignora la provenienza. C’è altro oltre la sopravvivenza. È la lotta della vita contro la morte, della ribellione contro uno stato dittatoriale e assolutista, contro superstizione e soprusi. Ed è questo il messaggio del disco, lottare, sempre e comunque. La musica incalza, ci sono parti recitate intensissime. Le spade si incrociano. Siamo agli sgoccioli. Il nostro pare essere sopraffatto. All’improvviso… e qui mi fermo per non rovinare il finale per chi avrà la curiosità di andare a leggere il racconto.

Concludendo. Ecco, questo è il succo del disco degli Tsubo. Lottare, non arrendersi, aprire gli occhi di fronte a situazioni palesemente ingiuste, corrotte, umilianti. Il tutto narrato come genere impone, senza freni, con molta violenza. Uno calcio dove non batte il sole per chi ancora fa finta di dormire invece di ribellarsi. Un ultima appostilla, non di secondaria importanza, i testi sono i italiano. Un disco difficile per mille motivi e proprio per questo interessante, intenso, urticante. Purtroppo non è un ascolto destinato ai più. Ma chi avrà il coraggio di iniziare a combattere lo amerà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *