I Crimson Dawn sono nati nell’inverno del 2005 come progetto di collaborazione tra Dario Beretta (Drakkar) ed Emanuele Rastelli (Crown of Autumn, Magnifiqat), con l’obiettivo di creare musica Epic Traditional Heavy Metal. L’obiettivo è stato perfettamente raggiunto. Il loro It come from the stars è un solidissimo disco heavy metal. Molto ben suonato, strutturato e prodotto. Il fine ultimo della band è quello di creare atmosfere evocative di cui il lavoro è ricolmo. Per fare ciò i nostri si servono di tutte le tecniche necessarie.
Dall’utilizzo di tappeti di tastiere, ritmi rallentati, alternarsi di momenti elettrici e acustici, cori epici. Senza tralasciare capatine in campo synth. Il disco apre con Prospero’s castle. Una oscura e intrigante cavalcata metal. L’introduzione è degna dei migliori DeathSS. Arpeggio iterante di piano forte su tappeto di tastiere lunghe. Batteria percussiva, andamento praticamente doom. L’ingresso delle chitarre non fa altro che appesantire ulteriormente le atmosfere. Power chord lunghi, lenti, pesanti come macigni.
La batteria si adegua di conseguenza con un ritmo lineare, marziale. La voce ottimamente si inserisce nel contesto con un cantato evocativo. Il primo spiraglio di luce, senza aumento di velocità, si ha con il primo ritornello. Una flebile luminosità che aiuta ad intravvedere il tetro contorno generale. Il barno prosegue su queste coordinate fino circa metà. Qui avviene un cambio repentino. Il ritmo sale. La chitarra prende il comando con un riff deciso, oscuro. L’andamento si fa cadenzato, meno oscuro.
Ottimo il break che dà spazio ad un breve solo di organo prima di quello di chitarra. Un intervento teso, lancinante. Per la sezione ritmica entrano interventi di doppia cassa. Sempre su tempi moderati. Complessivamente la canzone sale di intensità aiutata dal ritornello che accompagna al finale. La successiva Hunter’s dream si muove su binari analoghi, anche se leggermente più veloci. Questa volta è la chitarra ad eseguire il riff portante.
Davvero ottimo l’ingresso della sei corda acustica che alleggerisce l’andamento offrendo ottima spalla per l’inspessimento successivo. La voce resta evocativa, teatrale. L’alternarsi di acustico ed elettrico dona una grande ‘mobilità al brano che non risulta mai ridondante. Molto ben dosato l’utilizzo delle tastiere, presenti ma non invasive. A metà, nuovo cambio. Si ammutolisce la sezione ritmica. Entra un coro epico su base di tastiera a synth. Perfetta introduzione al solo di chitarra. Questa volta la sei corde parte in velocità per poi arrivare su note tese e lunghe. Si cambia nuovamente.
È la voce a mutare. Diventa una reminiscenza dei migliori gruppi prog degli anni ’70. Caratteristica che, grazie al doppio cantato, si conserva fino alla fine segnata nuovamente da un inserimento acustico su base elettrica. Fade away prende decisamente una direzione diversa. Fin dall’inizio la composizione è molto più andante. Si muove si coordinate più hard rock. Suoni aperti, tastiere che offrono ulteriore spunto alla melodia. Anche il cantato cambia.
Meno ‘epico’, più accorto alla melodia. I cambi interni non mancano. Le tastiere fanno capolino di quando in quando a segnare il confine tra strofa e ritornello. A metà circa è il turno del basso di far sentire la propria presenza. Ad un alleggerimento dell’accompagnamento fa seguito un breve solo del quattro corde. Preludio all’a solo della chitarra. Si riprende sulla strofa che riapre il brano portandolo al ritornello. Il finale è inatteso con uno stop della base e il solo intervento del piano forte. Nera sinfonia riporta su lidi oscuri, pesanti, catacombali. Riffing di chitarra a ricniamare i Black Sabbat mentre la tastiera disegna una inestricabile ragnatela si oscurità. Il cantato questa volte è in italiano.
Il brano alterna passaggi lenti e pesanti ad altri più ritmati. Perfetta dinamica per la narrazione del testo. A metà fa il suo ingresso un intermezzo epico nel senso letterale del termine. La reprise è affidata alla chitarra con un riff incalzante e i cori. Il solo riporta la composizione su ritmi sostenuti sottolineati da interventi di doppia cassa. Nuovo cambio. Si rallenta per poi riprendere l’andamento in mid tempo. La struttura si ripete aprendo la strada al finale.
La seguente Solace in death è nuovamente lenta, pesante ed oscura. Riff cadenzato di chitarra ad assecondare la batteria. Poi, improvvisamente, uno squarcio nel cielo plumbeo. Il ritornello apre con le tastiere che disegnano spazi aperti. Numerosi sono i cambi interni, i passaggi su riff differenti prima del solo di synth. A questo segue quello di chitarra che alterna fraseggi veloci ad altri più lenti. La reprise è sul ritornello che farebbe invidia ai Savatage, prima della chiusura. The ringmaster è presentato da una fanfara da circo subito surclassata da un pesantissimo riff di chitarra. Sono le tastiere ad essere lente in questo frangente intervenendo con note quasi dissonanti a creare atmosfere cupe.
Il ritornello rende l’insieme ancora più tetro. Rallenta per accompagnare la voce epica. Reprise sostenuta dalla chitarra. Il brano impenna. L’alternarsi dei passaggi lento veloce offrono una perfetta dinamica sia narrativa sia strumentale rendendo l’ascolto più accorto. Il seguente a solo di chitarra avviene su una base lenta che poi cambierà per l’intervento della tastiera. Questa si muove su tempi più veloci. Si rallenta nuovamente per dare spazio alla strofa. Il ritornello frena ancora per poi stabilizzare la composizione su un tempo medio lento fino alla fine. Of gods and mortals è epicità allo stato puro.
Mastodontica, incalzante, evocativa. Si intrecciano synth e chitarra a creare il tappeto per la voce che si fa narrativa pur rimanendo melodica. La teatralità del vocalist trova perfetto campo di applicazione. Anche in questo caso è il ritornello ad aprire la canzone. Non si modifica l’atmosfera generale ma risulta meno pesante. Sorprendente il passaggio al solo. Mutamento totale. I ritmi salgono leggermente. La base è maggiore. La chitarra ritmica accompagna con power chord in palm muting il solo della gemella. Quest’ultimo si alterna poi con la tastiera. La reprise richiama il riff iniziale. Qui la voce riprende le redini del brano con una nuova strofa. Secondo a solo, sempre su ritmi più veloci.
Un intervento rapido che rompe il ritmo fino a cui tenuto. Rientrato il solo si torna alla strofa che poi rallenta fino al finale. Ultimo brano The color out of space. Il richiamo al solitario di Providence è palese, sia per il titolo sia per l’andamento della canzone. L’atmosfera si fa space. Tastiere lunghe, riverberi, delay. Un riff iterato introduce un cambio repentino. Arriva un ritmo pieno con tutti gli strumenti. La voce ha un andamento ritmico a doppiare la chitarra. Dal gusto prog i cambi armonici. Così come il rallentamento successivo. Si tratta solo di un passaggio che poi riapre al ritmo pieno.
Le tastiere sono le vere protagoniste fornendo il supporto migliore per le chitarre e la melodia della voce. A circa ¾ ennesimo cambio. Tornano le coordinate space sottolineate dal suono della chitarra pulite e dai synth. La voce è narrativa pur rimanendo melodica. Si rientra a gamba tesa con un veloce intervento della sei corde. Il ritmo è serrato. Anche sul finale non ci sono rallentamenti. Neppure per quanto riguarda il solo che rimane complessivamente veloce. Rallenta solo sul fade otu finale.
Concludendo. Un grande disco heavy metal quello dei Crimson Dawn. Una delle caratteristiche positive del metal è che ha mille sfaccettature, almeno fino a quando non si dà una connotazione precisa di genere. E il disco in questione è così. Ha mille sfaccettature senza una connotazione precisa se non quella dei suoni decisi. Le influenze all’interno sono diverse e perfettamente amalgamate. Disco heavy metal per l’incedere e per l’intenzione. Il prog, così come l’hard rock al suo interno gli conferiscono l’apertura che allontanano a chilometri lo scontato e il già sentito. Ottimo lavoro.