Una delle caratteristiche più belle della musica ‘dura’ o ‘estrema’, entrambe i termini intesi in senso molto ampio, quindi non solo metal o rock, è la varietà della sfaccettature. Non esisto, per fortuna, una sola strada espressiva. Narko$ ne è l’ennesima riprova. Il nostro, one man band, è autore di un mix tra musica industriale, cantautorato, rock, metal e chi più ne ha più ne metta. La sola linea rossa che unisce il suo primo disco, Italian History X, è la cupezza, la mancanza di aria, il lato più raccapricciante della rabbia.
Il cantato è in italiano. Il che già agevola l’ascoltatore nostrano ad entrare nelle atmosfere buie del lavoro. Ma anche chi non è avvezzo alla lingua di Dante non troverà difficoltà a calarsi nella pece dell’animo umano. Le influenze sono eterogenee e caratterizzano in modo diverso ogni singolo brano. Si passa da sfuriate elettriche e pesanti di Golgotha, in cui in ogni caso non mancano intermezzi elettronici, a canzoni completamente oscure, Jihad, a brani più ‘leggeri’ ma non per questo meso cupi.
Al nostro va riconosciuta grande capacità di saper narrare. Soprattutto di saper amalgamare in modo perfettamente equilibrato strumenti e testi. La base strumentale fa da tappeto ineccepibile alle parole espresse nei testi. Anche se il paragone è un po’ forte, ma è lo stesso lavoro che hanno sempre effettuato i Pain of Salvation. Ecco, quella prog è una sfumatura che manca.
L’autore più che ad arzigogoli di stile si concentra sull’atmosfera complessiva. Prog può essere considerato l’andamento di alcuni brani come Asocial Network. Qui i cambi repentini si affastellano creando un andamento generale variegato e instabile. Completamente diverso l’andamento di Gemini dove è più marcato il territorio darkeggiante in un originale darkwave. Qui non si urla. La voce rimane sofferta, sporca il giusto per farsi levatrice di dolore.
Ottimo l’alternarsi di passaggi solo chitarra acustica e voce con suoni di synth e cassa dritta. Il finale è caratterizzato da un crescendo di intensità più che di volumi o distorsioni. MK Ultra riporta su binari più industriali. Chitarre sature, suoni elettronici, basso iterante sulla strofa compongono un quadro a tinte forti dai toni disturbanti. Molto interessante l’inserimento del piano prima dei un break solo voce e percussioni industriali.
Voce quasi narrante. Il rientro delle chitarre non fa altro che sottolineare la dissonanza delle atmosfere. Più avanti, Ultra riporta a territori dark wave. Basso in evidenza, chitarra acustica, voce compressa in toni scuri. Ciò che arriva è la sensazione di una persona che osserva il mondo rinchiuso in un antichissimo casolare in rovina. Gira per le stanze con le pareti scrostate, le finestre chiuse con assi di legno. Il nostro ha sui 40, vestito di nero.
Capelli lunghi, testa bassa mentre sale le scale che portano alle stanze del piano superiore. Una sorta di Nosferatu in autoisolamento. Si cambia radicalmente con Ostia. Tornano i clangori industriali. Si alza anche il ritmo. Voce filtrata per esprimere una sofferenza epidermica. Verso i ¾ nuovo cambiamento. Si frena bruscamente. Suoni elettronici accanto a un charleston iterante. La voce recita un passaggio della mesa cattolica. L’intensità aumenta. Rientra la chitarra. Ritmi spezzati portano fino alla fine.
Ancora differente Cuore freddo. Qui i suoni sono più techno, con sfumature industriali. Sempre cupi. Il riff incalza senza lasciare respiro. Quando si ferma, è la voce a prenderne il posto. Questo crea un’ininterrotta sensazione di strangolamento. Di mancanza d’aria. A ¾ cambio. Solo voce a base percussiva minimale. Preludio ad una ripresa ‘cattiva’, pesante. Non veloce ma che schiaccia. Così fino alla chiusura. La successiva I’v seen the man è in inglese.
Richiama atmosfere del grunge più cupo degli Alice in chains. Pur non avendone i suoni pesant. La memoria riporta senza sforzo ai primi lavori della band. I suoni scelti sono acidi più che pesanti. Si sentono anche reminiscenze Ministry. La title track ha un andamento più ‘metal’, virgolette d’obbligo. Batteria simil tharsh, chitarre con ritmi spezzati. Interludio solista su base incalzante. A ¾ break techno e ingresso di voce in growl. Nel disco non mancano le collaborazioni.
È il caso di Wall of shame, altro brano in inglese, cantato in duetto con Mimmo Cinieri. Il debito verso il suono di Seattle è qui ancora presente. Nel suo insieme il brano ha un andamento pesante, da caterpillar. Un bulldozer che avanza all’interno di una galleria senza luce dove schiaccia tutto ciò che torva davanti a sé. Neppure lo special centrale con sola chitarra acustica fa riprendere fiato. Il riff è iterante. La voce resta sporca. Uno special che non riporta il brano su lidi circolari ma lo trascina fino alla fine.
Concludendo. Un disco da ascoltare quello di Narko$. Ascoltare molte volte. Almeno per capire se piace o no. L’unione di tanti stili differenti porta ad una difficile catalogazione e quindi difficile riferimento stilistico che possa farci trovare su strade conosciute. L’album va interiorizzato, le sue strade vanno battute più e più volte. Non sono vie comode, né sicure. Anzi. È un cammino accidentato, a volte pericoloso perché ci fa affrontare i nostri demoni. Un lavoro raccomandato a tutti, non foss’altro che per mettersi alla prova e verificare se si è davvero così di ampie vedute.