Definire esattamente lo stoner, come molti altri generi, non è semplice. Come in tutti gli stili musicali ci sono elementi caratterizzanti che ne definiscono le coordinate. Ma si tratta di linee guida considerando che poi, inevitabilmente, al suo interno ci sono infinite influenze. A questa descrizione perfettamente si adattano i Deep Valley Blues. La base della loro musica è si stoner, come ambientazione, intenzione, polverosità, tuttavia non può essere limitata solo entro questi confini.
Reminiscenze anni ’70, blues, hard rock, metal, grunge, un pizzico di psichedelia, un approccio sostanzialmente punk (nel senso di diretto, senza appesantimenti) ne fanno un amalgama stilistico definito e riconoscibile. Nei nostri non manca la voglia di sperimentare e non si fanno nessun problema nel farlo. Undici brani caustici, pesanti, avvolgenti, che non possono passare inosservati. Il disco apre con Epitaph (Noir ballad) e la band mette subito le carte in tavola. La scelta è un po’ anomala considerando che si tratta di un brano strumentale. Polvere, deserto, caldo e miraggi.
Questi gli elementi messi in campo. Il brano si muove sulle coordinate di un pesantissimo mid tempo. Dopo un’introduzione all’unisono le due chitarre si separano. L’una resta sulle ritmiche basse mentre la seconda disegna una nuova melodia. La struttura così definita si alterna fino ad un’accelerazione (sempre nei limiti del genere) centrale. Preludio ad un imponente break. Rimane solo il basso, distorto, a richiamare il riff portante. Pochi giri e il brano esplode con un a solo di chitarra.
Si rientra nei binari iniziali. A ¾ nuovo cambio. Si abbassano i toni delle chitarre, sempre separate. Questa volta sono le sei corde a portare avanti il brano. Il basso è in secondo piano fino alla chiusura. Si prosegue con Bronco buster. Il brano impenna subito. Cambio radicale rispetto al precedente. Ritmo incalzante, non troppo veloce. Le due chitarre viaggiano su binari paralleli fin da subito. È la voce a riunire la base strumentale. Voce roca, trascinante. Dopo la prima strofa, intervento solista con slide.
Ottimo l’ingresso di una seconda voce di controcanto sulla strofa successiva. Nel nuovo break si rallenta leggermente. C’è l’ingresso del wha per una delle due chitarre che tiene viva la melodia. Ecco un aspetto che tiene bando per tutto il disco. La melodia. La canzone si spegne sulle due chitarre che si intrecciano. È un’introduzione percussiva di batteria, prima, e batteria e basso poi ad introdurre Malley o mucy. E percussiva rimane la base strumentale.
Ottimo il lavoro della batteria che cambia spessissimo donando al brano una dinamicità congeniale. Questo si regge su una struttura canonica strofa ritornello. Almeno fino allo special centrale in pieno stile lisergico. Visivamente potremmo definirlo come un passaggio di Paura e delirio a Las Vegas. Subito dopo intervento solista. Il ritmo torna incalzante. Il brano si risolleva diventando una cavalcata acida fino alla conclusione. Apprezzabilissimi gli effetti inseriti sul basso poco prima del finale.
Smokey mountain wood porta l’ascoltatore in ambiente cupo. Ottimo il lavoro delle due chitarre che si separano subito su due linne differenti. Si riuniscono poi a basso e batteria sulla strofa pachidermica. Più che apprezzabile anche le linea di basso che si fa via via sempre più incisiva. A metà si rallenta su un refrain caratterizzato dal rif portante. La seconda chitarre si distacca in un intervento solista melodico lento, evocativo. Un crescendo che culmina con l’introduzione del wha. Prima del rientro il brano accelera.
Si torna alla strofa con ritmo cadenzato. In incedere che conduce il brano fino alla chiusura. La seguente Phobos si maniete su coordinate più andanti. Il ritmo è serrato pur rimanendo un mid tempo. Diversi intermezzi e cambi di passo rendono dinamico il brano. Le due chitarre tengono fede alla linea delle strade separate che si incrociano sulla strofa. Con Talisman si rallenta. È un brano evocativo, polveroso, caldo. Sono sempre le due sei corda a definirne le atmosfere.
La prima si prodiga con un arpeggio in crunch mentre la seconda tesse melodie. Davvero ottimo l’intreccio successivo dove le chitarre si incastrano con due a solo differenti. Perfetta la base ritmica che sostiene l’andamento generale. Si tratta di un altro brano strumentale in cui la mancanza della voce non si sente. Pills of darkness riporta ritmi serrati. Molto buono il lavoro della batteria in controtempo sulla strofa. Riff impenetrabili accompagnano la voce che si fa sempre più ‘cattiva’.
Lo special centrale cambia radicalmente passo. Il brano si apre sull’a solo. Inattesa la reprise. Il solo si protrae con suoni quasi space su alternanza di ritmi lenti e veloci che portano alla fine. Maschere è il solo brano in italiano. Il testo è in perfetta linea con il genere scelto. Dopo una partenza acustica la canzone si inasprisce diventando un masso che rotola da una montagna. Il break centrale è perfettamente posizionato. Reminiscenze psichedeliche ne segnano l’andamento.
Sulla medesima falsa riga il seguente solo. Lodevole il lavoro della batteria. Nuova impennata per rientrare su strofa e ritornello. Nuovo cambio. Si rallenta. Nuovamente la batteria a farla da padrona. Prima con un effetto eco sul rullante. In seconda battuta con un breve solo. Su questo rientra poi il basso distorto che apre la strada alle chitarre su ritmo percussivo. Sul finale si cambia di nuovo. Voce narrante, tempo lento, le due chitarre su binari differenti. Sun of the dead crea un wall of sound notevole.
Ritmi in palm muting sulla strofa. Apertura con le due chitarre che nuovamente si separano. Specificità che mantengono per tutto il brano tra una strofa e l’altra. Ottimo il break dopo la seconda strofa. Basso e batteria in primo piano mentre le chitarre fungono da contorno. Scambio di ruoli. Le due sei corde prendono le redini del brano. Incalzano, si alternano.
Nuova strofa, nuovo muro che diventerà sempre più massiccio man mano che ci si avvicina la finale. Una chitarra in wha mentre la seconda accompagna il basso. Unisono sulla chiusura. Il decimo brano è una reprise di Epitaph, questa volta con il cantato. A chiudere il disco è Mum darkwood. Una ballata dalle tine fortemente cupe a richiamare Nick Cave. Lodevole l’intreccio delle chitarre che si incastrano tra arpeggi e a solo. Una nuova strumentale che degnamente chiude questo lavoro.
Concludendo. Come da premesse, i Deep Valley Blues dimostrano come si possa partire da un genere per poi creare uno stile proprio. Un ottimo lavoro che di ascolto in ascolto si arricchisce di sfumature. Una della caratteristiche che colpisce è la coesione della band e il perfetto equilibrio tra gli elementi. Nessuno sovrasta gli altri. Tutto è al servizio della narrazione e della creazione di architetture precise. La tecnica alla band non manca di certo, anche se non viene mai ostentata. È l’insieme che ne dà una precisa idea. Un disco non facile. Per le atmosfere, l’andamento, i suoni. Pesante, in alcuni passaggi claustrofobico. Tuttavia mai ostentato o con la voglia di voler dimostrare qualcosa. Un’esplosione di sentimento puro nato dal più profondo tormento dell’animo umano. Perso in un deserto infuocato.