Ricordo quando iniziai ad ascoltare band underground. Milioni di anni fa direi. All’epoca non c’era il concetto o, meglio, non lo sentivo addosso, che quei gruppi fossero dei professionisti della musica. Da quindicenne l’idea era che fossero come la mia band. Gruppi di amici che si trovavano a suonare assieme nella speranza di riuscire a produrre qualcosa di abbastanza buono da essere inciso. All’epoca circolavano poi le mitiche storie dei fenomeni scoperti per caso mentre si esibivano in un pub. Quindi cosa poteva esserci di meglio che non fare duemila date e sperare nel fato? Non esisteva un progetto.
Il moniker della band era espresso solo per gusto personale. Si ignoravano le regole basilari della grafica. Anche per il look era tutto lasciato al caso. La differenza era data solo dal genere. Se suonavi hardrock avevi una divisa, se suonavi thrash un’altra e così via. Del resto i gruppi di riferimento non stavano a perdere tempo su questo sciocchezze, si pensava. Poi arrivavano le interviste in cui qualcuno dichiarava di salire sul palco con lo stesso paio di pantaloni con cui era andato a dormire e quindi tutto era sistemato.
Se lo fa tizio che è tizio, perché non lo dovrei fare anche io? E questo valeva per buona parte delle persone che suonavano. A meno che non ci fosse una caratteristica specifica per la band, si legga DeathSS, nessuno faceva caso alla parte estetica. L’importante era la musica. E questo si rifletteva anche nelle band underground. A sfogliare le pagine dei mitici giornali di settore di allora ci si imbatte in tenute più che improbabili. Tante esasperate rispetto alle originali.
Che poi, le originali da cui si prendeva spunto, non si rifacevano a nessuno. Il perché anche noi non ci siamo tenuti qualcosa di personale è una domanda senza risposta. Col tempo ho capito che, invece, la maggior parte dei gruppi underground non erano come la mia band da garage. E no. Erano molto più preparati, magari facevano prove non una volta alla settimana ma più volte. Che tanti ragazzi anche se come me, avrebbero voluto vivere di musica.
Non si limitavano ad aspettare il colpo di fortuna ma andavano a cercarlo. Ancora in là ho con l’età e con l’esperienza, ho iniziato a conoscere chi era arrivato in fondo a quel percorso. Persone che vivevano grazie alla musica. Magari non facendo solo i musicisti con un gruppo ma lavorando sempre nell’ambito per arrotondare. Sono venuto poi in contatto con l’incredibile mondo dei turnisti. Ma come, ci sono anche nell’underground? Ma non si chiamavano collaborazioni?
Ricordo che il primo che vidi mi lasciò perplesso. Si trattava di un chitarrista che avevo visto sonare a Milano con una band e che rividi a Roma con un gruppo diverso. Allora, magicamente, capii che suonare era e poteva essere un lavoro vero. Che tra la mia band e quella su quel palco c’era un’enorme differenza. Al di là della preparazione strumentale, c’era innanzitutto una differenza di approccio. Io, con chi suonava con me, ero solo un amatore, un musicista da fine settimana che provava a scrivere delle cose.
Quei ragazzi invece erano musicisti veri, una band reale che quando si incontrava per scrivere un pezzo lo faceva con cognizione di causa, con ben in testa cosa voleva ottenere. Da quel momento in poi ho osservato con occhio diverso i gruppi che seguivo dal vivo. Sono riuscito ad iniziare a distinguere chi era davvero come me, e chi no, chi meritava di più perché quella era la sua vita e chi invece lo faceva solo quando aveva tempo. Non che sia nulla dimale. E non credo che oggi le cose siano molto cambiate.
Certo, oggi chiunque può scrivere un disco nel tempo libero. Un cd concorrenziale, perfettamente prodotto, suonato con grafica perfetta, foto interne da paura. Un lavoro che andrà su tutte le piattaforme digitali perché oggi basta un clik per farlo. Eppure quella differenza esiste ancora. Allora noi non ci impegnavamo a fare magliette, adesivi, loghi, lavori grafici per le locandine. Eravamo incapaci e senza soldi.
Quando andavamo a suonare era sufficiente avvisare i soliti 4 che avrebbero a loro volta avvisato i soliti altri. Noi non lo facevamo, ma le band serie, si. Altro che. Investivano tempo, lavoro e soldi anche in queste attività collaterali. Del resto loro era i pro, quelli che avevano in testa una idea ben precisa, che non speravano nel colpo di fortuna ma andavano a cercarlo. Nel 2023 è la stessa cosa. La differenza la fa sempre l’approccio, la cura in ciò che si fa, l’attenzione ai dettagli.
Si vuole riconoscere una band domenicale da chi invece sta cercando di costruirsi una strada propria verso il professionismo? Basta fare caso a quanto detto sopra. Basta vedere se, oltre a tutte le piattaforme digitali, hanno curato anche il sito, i social, ed eventuali video o canali youtube. Il fatto di avere un ufficio stampa, un curatore di immagine, un social media manager, è un extra. Iniziamo a capire quanto vogliono farsi notare.
Recensioni e interviste estemporanee servono a poco se non sono inserite in un progetto più ad ampio respiro. Vediamo se queso progetto esiste e come viene messo in pratica. Sarà anche brutto da dirsi, ma la differenza nel nostro mondo la facciamo noi stessi. Siamo i soli capaci di farci notare o no. Nessuno ci verrà mai a scoprire se siamo chiusi in casa o suoniamo una volta all’anno salvo poi recriminare che meriteremmo di più.
Ora come allora, pur con internet, youtube, spotify e via citando, la differenza tra chi suona nel fine settimana e chi no, c’è. Non che sia un male, ma credo vada premiato innanzitutto l’impegno. Il resto, essendo fatto senza pretese, può arrivare anche dopo. Senza offesa per nessuno.