Involution dei Motortrinken è un disco metal. Nel senso stretto del termine. Non classic metal, proprio heavy metal. Si parla di pelle, ribelli, libertà, corse in moto. Ma non sono solo i testi a caratterizzarlo in questo stile. I brani sono diretti, potenti, pesanti, ben suonati, con a solo al fulmicotone quando serve. Tuttavia ha un ‘lato oscuro’ che disturba e lo indebolisce. I nostri sono degli onesti musicisti, senza piglio virtuosistico. Macinano riff su riff, cambi di atmosfere e ritmo che perfettamente rispettano gli stilemi del genere. Il lato oscuro riguarda l’aspetto melodico e armonico.
Entrambe troppo standardizzati, appoggiati su soluzioni che funzionano, perché utilizzate da altri. A controbilanciare ci sono i su citati cambi. Il risultato è un disco neutro. Le parti originali non bastano a sollevare il cd. La caduta arriva soprattutto sul cantato. Questo ha come base un riffing standard, usurato. La voce è a metà strada tra Lemmy e Mille Petroza. L’accostamento delle diverse parti lascia il disco al palo, ossia non decolla mai. Ogni cambio fa sperare in una crescita.
Quando poi si arriva al dunque c’è una poderosa battuta d’arresto. Forse il brano che meglio rappresenta questo andamento è Born to kill dove l’apertura del ritornello è svuotata da un passaggio che l’alleggerisce troppo. Intendiamo, non stiamo parlando di un disco suonato male. Parliamo di un disco che sarebbe potuto essere molto meglio di com’è. La band ha dalla sua tutte le competenze e le capacità di scrivere ottime canzoni. Deve però uscire dagli schemi. Il rischio è quello di perdersi nei gorghi di musica che non aggiunge e non toglie nulla.
Sia chiaro, può essere una scelta precisa e consapevole. Quindi indiscutibile. Se non che nel momento in cui l’ascoltatore dovesse dover decidere se ascoltare loro o qualcun altro, probabilmente opterebbe per la seconda opzione. Sulla stessa falsariga di Born è la successiva Liar Motortrinken. Parte molto bene ma si perde in rivoli che non la valorizzano. È assente anche quella rabbia, quella voglia di suonare che poteva essere dei Motorhead. È interessante il bridge che unisce i ritornelli fatto di un passaggio di basso percussivo su cui si appoggia una batteria in levare. Il solo è di ottima fattura.
A fargli da sottofondo troviamo prima una ritmica piena. In seconda battuta un break si basso e batteria inframezzati dalla ritmica spezzata della seconda chitarra. Ecco un’altra possibilità male sfruttata. Le due chitarre viaggiano per la maggior parte del tempo, nell’intero disco, all’unisono. Un peccato perché quando si separano riescono ad offrire i loro momenti migliori. Si prosegue con Its to late. Uno dei brani più interessanti del cd. Ritmi dispari, cambi repentini, basi di batteria inusuali per il punto in cui sono stati piazzati rendono il brano molto interessante.
Anche il cambio a metà, molto maideneggiante, è reso intrigante dall’acompagnamento della batteria e dal successivo intervento del basso che prende il sopravvento anche nel mixing. Segue un ritorno sulle coordinate iniziali. Sulla buona strada anche Point of no return. Riff a riprendere i Judas Priest che viene spezzato dal cambio di tempo e dal primo intervento solista. La sezione ritmica utilizzata sotto il cantato si sposta dai canoni del genere. Il cambio successivo è un ottimo spunto anche se porta su coordinate troppo standard.
Ottimo il solo, lento, circostanziato. La circolarità dell’architettura della canzone non aiuta renderla abbastanza incisiva come invece meriterebbe. Si risolleva su un finale che strizza l’occhio a stilemi progressive. Riders of shadows parte subito in quarta. Ritmo serrato, riff granitico. I tempi sincopati ben si inseriscono nell’andamento generale. Così come ottimo è il cambio poco prima della metà. Pure questo molto prog così come il successivo passaggio dove si alternano ritmiche spezzate e chitarra e basso si danno il cambio. Il solo poggia su un tappeto quasi space.
Anche in questo caso non è veloce, sempre melodico. Ripresa sulla falsa riga dei Judas Priest riporta tutto in carreggiata. Il finale è affidato ancora allo scambio con il basso. Chiude Forced Choices. Inizia con tanto di arpeggio per poi aprirsi alle distorsioni. La batteria rimane sempre percussiva più che tenere un tempo. Anche al cambio per l’ingresso della voce prosegue su questa direttrice. L’apertura non è delle migliori andando a ricalcare gli stilemi del genere. Allo stesso modo per quanto riguarda la voce, anche come intonazione sempre più simile agli autori sopra citati.
Concludendo. I Motortrinken non hanno fatto un brutto lavoro. La domanda che rimane ancora senza una risposta è: perché la scelta di prendere un riffing preconfezionato, invece di far emergere quello che davvero hanno da dire.