Ottimo lavoro quello dei Sviet Margot. Ma prima di addentrarci nella recensione serve un’obbligata premessa. Soprattutto considerando l’estrazione musicale ed iconografica della band.
Il j rock è un genere apparentemente distante dal mercato generale. Fa un po’ storia a sé. I gruppi giapponesi o vengono amati o odiati. Pare non gli interessi più di tanto andare fuori dai propri confini. Questo lo possiamo dedurre anche dalla scelta di cantare in lingua madre piuttosto che in inglese. Noi occidentali, vuoi per deformazione, vuoi perché è stato il sol modo, prima dell’avvento di internet, per conoscerlo, ma lo associamo agli anime. A quelli che una volta erano semplicemente i cartoni giapponesi.
Quindi, se qualcuno propone un che di ispirato al rock giapponese, viene quasi immediatamente riferito al mondo anime. Gli Sviet Margot fanno parte di quelle band che prendono spunto dal jrock, quello lanciato da band come X-Japan, Luna Sea, Malice Mizer e via citando. E il richiamo è netto e identificabile dalla prima all’ultima traccia. Chiariamo subito, non stiamo dicendo che hanno copiato o non sono originali.
Li si sta solo inquadrando stilisticamente. Cosa che diversamente, date le innumerevoli influenze, sarebbe piuttosto difficile. E si. Le band nipponiche hanno sempre avuto dalla loro il non limitarsi ad un solo genere. La partenza poteva essere metal, rock, hard rock, techno, ma l’evoluzione aggiungeva allo stile base infinite sfumature. I nostri soprattutto in questo sono jrock. All’interno del loro ultimo Into the badlands gli stili sono quasi infiniti. Si passa dall’hard rock metal, alla techno senza dimenticare il pop.
Il tutto perfettamente amalgamato da una voce sempre all’altezza, una produzione cristallina ma potente e una melodicità che mai viene meno. Insomma, un mix esplosivo che potrebbe portare la band davvero lontano. Un aspetto va sottolineato. Certe soluzioni, che per noi sono nuove, per la terra del sol levante sono piuttosto comuni. La bravura dei nostri è stata soprattutto riuscire a filtrare il tutto attraverso il setaccio del retaggio culturale occidentale.
Ed ecco che, quindi, vediamo inserimenti di voce sul confine con la lirica inserirsi in contesti rock. Tappeti di chitarre metal rotti da interventi di synth. Tredici canzoni che fanno tutte storia a sé. Il disco apre mettendo subito le carte in tavola con All i need. Intro metal su cui si poggiano inserimenti tastieristici e una cassa dritta. Il ritornello riporta la matrice rock duro al comando. Tutto guidato dalla voce sicura e pertinente di Tiziana Giudici. È lei la nocchiera di questa nave in esplorazione.
Una conducente che sa perfettamente dove andare a come arrivarci. Il brano alterna le due parti sopra citate aggiungendoci inserimenti che ricordano il prog o il miglior aor. Tales & tales inasprisce leggermente i suoni pur lasciando spazio ad una melodia orecchiabile in stile punk rock che può essere tipico di un certo jrock, appunto. La voce si destreggia ferma e sicura tra il cantato super melodico e quello più rabbioso. Molto ben azzeccato il break a circa ¾.
Voce maschile in giapponese recitato spezza il ritmo prima del rientro sul ritornello. Neanche le ballate sono scevre da infinite influenze. Crystal tears, la prima del disco, non può essere definita ballata canonica. Chitarra acustica, suoni aperti, ritornello che si stampa in testa dopo il primo ascolto. Non sono binari canonici. Senza tralasciare il passaggio super jazzato effettuato dal basso circa ad 1/3 della canzone.
Un passaggio molto urbano, fusion. Sempre presenti i suoni dei synth che introducono a accompagnano il solo di chitarra. Questo è al pieno servizio del brano. Lento, evocativo, sentito. Ultima corsa sul ritornello e chiusura in crescendo di intensità. Si arriva così alla quarta traccia, la sola cantata in italiano. È forse uno dei brani che meglio rappresentano il disco. L’equilibrio tra melodia catchy, suoni distorti, ritornello aperto, voce sognante, è dire più che perfetto.
Si sente in tutto e per tutto la potenzialità della musica leggera nostrana se unita a sonorità più dure. Melodia impeccabile, performance della voce ineccepibile arrivando al suo climax nell’ultimo ritornello dove offre sfumature liriche. Ottimo il coro in controcanto sul finale. Waterfire riallinea la barra del disco su sonorità molto più heavy. Le melodia, pur rimando ben presente, fa spazio a suoni più che decisi e spigolosi. È sempre il ritornello ad offrire le soprese migliori.
A ¾ cambio. Batteria percussiva sotto coro continuo. Ancora una volta arriva il cantato in giapponese ad appesantire passaggi già di per sé granitici. Blood lipstick presenta un intro al confine con il doom. Lento, mastodontico. In questo brano a dominare sono le orchestrazioni. Queste fanno da base per una voce che si supera facilmente da sola. Perfetto anche l’utilizzo della voce lirica a compensare quella melodica. Perfetto il crescendo che porta alla fine. Molto più incalzante la title track. Puro stile metal.
Doppia cassa e terzine ritmiche non spengono la capacità melodica. Proseguendo questa cavalcata sonora, ci si rende conto dell’enorme capacità narrativa della band. Lipstik blood potrebbe essere definita al di fuori del contesto. Infatti è distante il sound diretto che lascia spazio ad un intro techno cui segue un cantato lirico. Interludio hardrock per un ritorno techno. La struttura si alterna per aprirsi ad un ritornello accattivante. Molto apprezzabile la corsa sul finale che è un crescendo caratterizzato da un riff di chitarra circolare che esplode nel refrain.
Hope in fire apre un contesto moderno sospeso tra l’elettronica e l’aor. La voce cambia stile. Diventa narrante. In questo caso il ritornello aperto spezza l’andamento del brano spiazzando l’ascoltatore. Ai ¾ cambio. Si rallenta. L’elettronica si fa più presente. Le atmosfere si fanno progressive con un basso che si sgancia a creare una linea propria. Il breve intervento solista si appoggia su una base dove tastiera e basso seguono binari differenti. Davvero notevoli i cori in sovrapposizione sul finale.
Prog mischiato alla new wave l’intro di Blu Mind. A seguire torna un andamento standard per il refrain. Nuovo cambio. Questa volta al risvolto progressivo si unisce la voce maschile in controcanto. Il solo è sempre circostanziato e perfettamente dosato. Mai invasivo o inutilmente veloce. Le sovrapposizioni di voci portano alla conclusione. Wings of a star miscela invece chitarra acustica e suoni elettronici percussivi. La voce mantiene la coerenza del brano portandolo dove vuole.
Il bridge cambia leggermente atmosfera per poi aprire ad un refrain accattivante, suggestivo al limite del pop. A riportare le direttive su binari più complessi ci pensa un intervento di basso e batteria progressivi. Davvero notevole l’alternanza melodica. Il solo di chitarra risolve sul ritornello che chiude il brano. Angelo of the moon è il penultimo brano del disco. Ecco nuovamente, in apertura, ritmi più serrati ma non cupi.
Questa volta è la batteria a fare la differenza con dei cenni di poliritmia. Il tutto si riallinea sul ritornello cui si aggiunge un pianoforte. La struttura si ripete fino ad includere due distinti interventi solisti. Il primo a ¾ e il secondo sul finale. Chiude il lavoro Margot. L’architettura è leggera, segnata da un basso molto presente e una linea melodica incisiva. In questo caso più che al mondo anime ci avvicina al kpop, anche come andamento generale del brano.
Concludendo. Davvero un bel disco quello degli Sviet Margot. Variegato, ben suonato, che si discosta da produzioni nostrane hardrock in modo piuttosto netto. Un disco che pur nel suo essere orecchiabile nasconde moltissimi passaggi e livelli di lettura. A volte il gruppo li sottolinea alternando attimi più complessi a momenti più immediati ma sempre ben strutturati.
A volte invece lascia andare come se fosse l’ascoltatore a doverli scoprire di ascolto in ascolto. Un lavoro adatto a tutti gli amanti della melodia, dei suoni che si affastellano, delle soluzioni poco ortodosse e ricercate pur rimanendo easy listening. Un disco che potrebbe essere candidato per una grande diffusione completamente meritata per essere riuscito ad unire melodia e capacità tecnica sena per questo essere banale o scontato. Tutt’altro.