Dopo decenni di onorata militanza, operatività, e dopo anni di interviste, scambi, raccolta di commenti, mi sento di poter fare un piccolo punto della situazione dell’underground. O sarebbe meglio chiamarlo ‘underverso’. A livello di vitalità del nostro mondo, siamo decisamente competitivi. Ci sono artisti e band superpreparati, dischi più che ottimi, live perfomances che farebbero invidia a qualsiasi nome del mainstream.
Il punto dolente arriva quando si parla di attitudine e voglia di crescere. Qui abbiamo firmato per un suicidio assistito che sta lentamente avvenendo. La verità è che abbiamo tutte le carte in regola per poter essere un vero punto di riferimento, ma non le utilizziamo. La maggior parte delle difficoltà indicate dai più, sono in realtà dei falsi problemi. Preferiamo crogiolarci ripetendo sempre le stesse cose invece di cercare la strada per uscirne.
Anziché prendere atto dei muri che ci circondano e trovare il modo di abbatterli o aggirarli, ci fermiamo ad osservarli. L’aspetto peggiore è che li osserviamo senza vedere la porta che è accanto a noi. Continuiamo a lamentarci della difficoltà di uscire. Siamo tanti, tantissimi, ma non ce ne accorgiamo. Come non ci accorgiamo della nostra forza dirompente. Il sistema non ci considera? Facciamo in modo che ci noti, dovrebbe essere la risposta.
Invece noi mettiamo in campo un piagnisteo, una lamentatio infinita che ci blocca. Innumerevoli sono i casi di artisti emersi dal nulla che sono riusciti a farsi notare. Noi non ci riusciamo. Chiediamoci il perché. Onestamente non credo sia una questione di boicottaggio, di voler frenare una cultura scomoda. Siamo noi a non voler andare avanti. La domanda è la stessa che si ripete: vogliamo davvero uscire dal bozzolo?
In tanti hanno sottolineato come l’underground è, o, dovrebbe essere, solo un passaggio. La così detta gavetta da cui poi uscire verso il mondo. Ne siamo sicuri? Il fatto che la musica non è il lavoro principale, che non dà, per ora, da mangiare, non dovrebbe demotivare. Così come non dovrebbe rendere tutto amatoriale. Ci sono esempi altisonanti di gruppi e artisti che sono riusciti ad avere una carriera musicale affiancata a quella del lavoro che gli ha dato da mangiare.
Basti pensare agli Anvil, ai Twisted Sisters, o a ciò che hanno fatto band super affermate come i Van Halen o i Motley Crue. Per non parlare dei gruppi usciti con le ossa rotte dagli anni ’80 e che sono tornati in pista dopo anni di fermo. Sono i termini di paragone che sono errati. Certo, se io ho come riferimento ho i Police, Elthon John, come Metallica o PFM, sono fregato. Sono fregato fino a quando non faccio caso a cosa c’è sotto il loro livello.
Credere che tutti i musicisti di cui leggiamo sulle riviste riescano a campare solo di musica, è errato. Andiamo a scavare, andiamo a vedere se davvero è così oppure anche loro, come noi, hanno bisogno di qualcosa di extra che gli permetta di vivere. Il fatto di finire sulla copertina di qualche giornale specializzato non fa assurgere automaticamente al rango di rockstar che guadagna moltissimi soldi. Chi riesce a campare solo di musica lo si può contare, se non su una mano, certo non più di due.
Gli altri sono nella notra stessa barca. Io mi sono spesso chiesto, ma che cosa fanno i gruppi quando non sono in tour o non stanno registrando? Davvero tutti guadagnano così tanti soldi da potersi permettere di oziare? La risposta è stata no, non se lo possono permettere. Magari per questo motivo molti artisti, musicisti, ci mettono anni a fare i dischi. Guardando a casa nostra, tantissimi cantautori affermati svolgono altri mestieri.
Mi viene in mente Vecchioni che faceva l’insegnante. Pesino Lucio Dalla è finito ad insegnare all’università di Bologna. Se allarghiamo il concetto a chi fa arte in genere, abbiamo solo altre conferme. Pennac, che è Pennac, insegna anche lui. E come lui moltissimi altri. Senza dimenticare chi è arrivato alla ribalta delle cronache solo dopo la morte. Quindi? Di che cosa stiamo parlando? Di un sogno? No, stiamo tirando in mezzo delle scuse.
E questo crea delle spaccature all’interno dell’underverso. Delle frammentazioni che ci danneggiano. Soprattutto quando non vogliamo ammettere di non essere tutti uguali e di non desiderare tutti le stesse cose. Il nostro problema è che non abbiamo un obiettivo comune. Se così fosse remeremmo tutti dalla stessa parte. Invece ognuno cerca di indirizzare la barca un po’ dove gli pare. Questo si riflette e si evince anche dalle proposte presentate.
Ci sono gruppi e artisti che ‘si accontentano’ di somigliare a, di suonare come, di riuscire ad imbastire dei brani con i cliche del genere per poi farne vanto. Noi siamo integerrimi. Suoniamo così e basta. Chi ci ama ci segua. Però se non li segue nessuno, si lamentano. È un errore, è sbagliato mettere tutti sullo stesso piano. Semplicemente perché non lo siamo. Chi studia in continuazione per poter migliorare e offrire composizioni sempre migliori, non è come chi suona solo la domenica.
Non è e non può essere sullo stesso piano. Quindi sarebbe bene prendere atto di ciò. È una questione di scelte. C’è chi decide di investire il proprio tempo, le proprie risorse economiche in un progetto ben preciso. Poi c’è chi naviga a vista. È inutile cercare di fare i puristi, gli integerrimi. Come artisti ciò che ci interessa è essere conosciuti. Diversamente non credo avrebbe senso spendere del tempo per scrivere canzoni, incidere un disco, mandarlo in giro perché sia recensito.
È probabilmente ora e tempo di far emergere queste differenze. Di prendere atto della scelta che abbiamo effettuato e regolarci di conseguenza. Si tratta di convinzione in ciò che si fa. Di equilibrio. Ci si deve guardare bene attorno e vedere davvero le cose come stanno, senza accampare scuse o millantare difficoltà che non esistono. Soprattutto in un mondo come quello attuale, con la base di potenziali seguaci che ci ritroviamo ad avere al di là dei passaggi radiofonici e televisivi. Abbiamo tutto nelle nostre mani, dobbiamo solo farlo fruttare.