IMO Underground

‘Meriti il posto che occupi’, recitavano i Disciplinatha, storica band nostrana. E meriti il posto che occupi dovrebbe essere il motto marchiato a fuoco sulla pelle dell’underground italiano. Chiariamo, non stiamo parlando di qualità. Parliamo di tutto il resto. Che la musica sotterranea italiana non venga considerata è una conseguenza del retaggio culturale italiota. Lo si può notare ovunque. Ad iniziare dai concerti ai quali assistono quasi esclusivamente gli amici.

A pochi interessa scoprire nuove band. Senza parlare poi dell’invidia del pene o del celodurismo. Due fenomeni aberranti che pare non vogliano uscire dal nostro modo di pensare. Io sono meglio di te e se tu ottieni più successo è per paraculaggine, fortuna, attitudine commerciale e nefandezze accumulando. Lo stesso dire che se certe band fossero nate altrove avrebbero avuto più successo è un’aberrazione. Una volta ci si poteva anche credere. Ma oggi, con internet, diventa difficile. Un tempo far arrivare la propria musica oltre confine era complicato, oggi basta un click.

La domanda è, dunque, come mai queste meritevolissime band che ‘se fossero nate altrove sarebbero famosissime’, non hanno un contratto discografico con qualche etichetta del paese da cui sono state allontanate dal destino? Che, in realtà, lo loro proposta, così tanto buona non è? E non potrebbe essere altrimenti visto che, all’estero, hanno maggiore cultura musicale, sono tutti più accorti alla musica di qualità.

Non ci viene in mente che noi, non vivendo nel tal paese, non sappiamo esattamente come girano le cose da quelle parti e che, magari, la proposta di quei meritevolissimi artisti non è poi così appetibile? Quello che sappiamo è sempre per riflesso. Soprattutto, è un sapere filtrato dalla nostra volontà di vedere solo quello che ci piace o che avvalora le nostre tesi. Altra freccia di questo spregeveole affresco è il fatto che diamo ancora spazio a cariatidi decrepite che dopo 45 anni ancora calcano i palchi.

‘Sono insostituibili’ diciamo. ‘Nessuno come loro’. ‘Le nuove generazioni dove li trovano artisti di questo calibro?’. Tutte fandonie. Buffonate da dinosauri in via di estinzione. Sarà mica che ci stiamo ancorando con le unghie e coi denti ad un passato che non c’è più e non vogiamo farcene una ragione? Continuiamo a dire che oggi fa tutto schifo per il semplice fatto che non lo capiamo.

La vera musica è quella di una volta. Oggi non ci sono più talenti. Poi ti giri e ci sono nuovi musicisti più che portentosi. Qualcuno ha anche lanciato l’idea che le nuove generazioni abbiano paura del confronto. Non direi. Piuttosto siamo noi ad averne paura. Siamo noi che non vogliamo ammettere di essere tagliati fuori dall’evoluzione culturale. Certo, i gusti sono gusti e non si discutono. Ma il gusto non giustifica la generalizzazione su basi soggettive. E no. Non funziona così. E intanto continuiamo a cercare quello che è stato. Hai sentito l’ultimo di tizia? Dopo 40 ancora ci dà dentro. E caio?

Ammirevole, sempre la stessa musica da 40 anni. E così, lentamente, la bara sull’underground italiano si sta chiudendo definitivamente. Il rammarico è per quei gruppi che davvero ci credono, che davvero hanno avuto un’evoluzione, una crescita. La solidarietà va a loro e non certo a chi cerca ancora di ribadire che ha fatto la storia. Già, l’hai fatta. Ma oggi non la stai più facendo. Lodevole Gilmour che dice come la musica dei Pink Floyd oggi non verrebbe capita. Ha ragione.

E se lo dice lui, perché non possiamo dirlo noi? Perché noi non possiamo trattare gli storici come tali invece di utilizzarli come mattoni per un muro che inevitabilmente verrà abbattuto travolgendoci? Si, la fama dell’underground italiano merita il posto che occupa. L’anonimato. E il bello è che la colpa è solo nostra, dei cittadini dell’underverso. Di nessun altro. Non sono i discografici che boicottano, non è il pubblico che non capisce, non sono le radio che non trasmettono. No, siamo noi che non vogliamo andare oltre il nostro piccolo uscio fatto di traballanti certezze ed erose sicurezze. E ci lamentiamo. È un po’ come se un suicida si lamentasse del fatto che ha scelto di uccidersi.

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