Un milione duecentomila followers su Facebook. Due milioni su Instagram. Centotrentamila iscritti e quasi dieci milioni di visualizzazioni su youtube. Duemilioni quattrocentomila followers su TikTok. Ottocentomila ascolti mensili su Spotify.
Non sono i numeri di un nuovo artista spinto da chi sa chi. Sono quelli di un duo di settantenni che fa hip hop. Pete & Bas. Ma chi sono Pete & Bas? Sono due settantenni, meglio ripeterlo, che nel 2017 hanno deciso di creare un duo rap. Da allora hanno inciso un disco, Mugshot nel 2024, e collaborato con moltissime star. Il loro primo singolo, Shut Ya Mouth del 2017, è andato virale. Eppure non sono fermati li. Sono sbarcati praticamente su tutti i social raggiungendo numeri impressionanti di cui sopra.
A questo punto la domanda è più che lecita: qual è il problema degli artisti underground di mezza età? Qual è? Che difficoltà hanno nell’utilizzare le moderne tecnologie per farsi conoscere? Se lo hanno fatto due settantenni, perché non loro? Chi con un po’ di materia grigia farebbe mai un investimento in termini di tempo e soldi per poi non farlo fruttare? È un po’ come comprare una Ferrari con mille sacrifici e poi lasciarla in garage perché non si ha voglia di mettere la benzina.
Eppure è quello che molte band, molti artisti fanno. Spendono migliaia di euro, decine di ore per incidere musica che poi lasciano li, nel cassetto. Pete & Bas non solo i soli ad utilizzare i social. Se, nel tempo perso, si desse un occhio in giro, ci si accorgerebbe come tutti, proprio tutti, stanno cercando di sfruttare i nuovi canali di comunicazione. E gli artisti underground? No, loro no. Non gli interessa. Meglio affidarsi ai soliti metodi. Eppure sono sempre di più i big che sbarcano sulle piattaforme.
A dare il buon esempio è il buon Marco Arata, aka Mark the Hammer. In un suo recente video ha dato la giusta dimensione di quello che un musicista oggi dovrebbe fare con i social. Dovendo pubblicizzare una sua serata, si è inventato una clip in cui spiega cosa vuol dire essere un artista ai giorni nostri. Sul finale svela che tutto il montaggio è servito solo a portare le persone alla pubblicità dell’evento. Emblematica la chiusura: se avessi fatto solo la promozione della serata non mi avreste cagato di striscio.
E si torna alla domanda principale: qual è la difficoltà delle band underground nel fare la medesima cosa? Il tempo? Non credo. Quello necessario a scrivere canzoni, arrangiarle, inciderle, scegliere la copertina, fare le foto, è stato trovato. Ed è molto di più di quello necessario a fare un video o scrivere un post per qualsiasi social. Non ci vogliono mettere la faccia? Se non sbaglio fai l’artista, la faccia ce l’hai già messa.
Mancanza di fondi? Di certo l’investimento è decisamente minore rispetto a quello necessario per registrare un disco. Quindi? Che problema hanno? L’imbarazzo? Perché stare su un palco davanti a decine di persone è facile? Non hanno nulla da dire? Che cosa lo avete inciso a fare un disco se non avete nulla da dire? La sola ‘scusa’, virgolette obbligatorie, plausibile potrebbe essere, non sappiamo come si fa.
Neppure quando avete scritto il primo brano sapevate come si faceva. Eppure ci avete provato. Ergo? Poco importa che la propria musica vada in giro. Una delle idiozie più gettonate a giustificare il mancato impegno è: si ma i social sono una cosa di giovani. Noi ormai… Ebbene, Pete & Bas smontano anche questa idea. Una obiezione potrebbe essere: si ma loro sono stati costruiti a tavolino.
Vuoi mettere due vecchietti che rappano quanta curiosità richiamano? Vero, verissimo, ma intanto i due vecchietti si sono prestati. Senza contare che nessuno ha l’assoluta sicurezza che un’operazione, per quanto commerciale, funzionerà davvero come previsto. E la domanda resta ancora senza una risposta: che problemi hanno le band e gli artisti underground con le nuove strategie di comunicazione?
Davvero, mi piacerebbe saperlo. Perché questo rifiuto, questo odio verso quella che è oggi la nostra realtà? Come si può pensare di sopravvivere se non ci si adatta, si sperimenta, o almeno non ci si prova? Se non sono gli stessi artisti a voler emergere, nessuno gli può dare una mano. Ma il discorso non vale solo per loro. Vale anche per gli addetti ai lavori che li circondano.
Etichette e uffici stampa troppo spesso sottovalutano l’aspetto social fermandosi alla classica comunicazione. Peccato che non funziona più. Non bastano le interviste, le recensioni a farsi conoscere. È finita l’era delle fanzine. E lo si deve capire, ci deve entrare in testa. Diversamente siamo solo degli zombie, tutti, che aspettano solo di essere uccisi.