Fare crossover non è facile, neppure quando si parte dall’alto della ‘musica colta’, il jazz. Questo Trait d’union di Alessandro Bertozzi è un ottimo disco jazz che abilmente si destreggia tra reminiscenze anni ’70 (molto funky), free e jazz contemporaneo.
Ottima la produzione che pone tutto sul migliore livello possibile, suonato in maniera incredibile da musicisti più che capaci. Il tutto dedicato all’Africa e ai suoi colori. Lo stesso titolo Trait d’unione’, unito alla grafica del digipack richiamante iconograficamente maschere africane.
A detta dello stesso Bertozzi, il disco è esattamente quello che aveva in testa, ha i suoni che il musicista desiderava.
L’Africa è un grande continente, volerne rendere omaggio non è cosa facile. Si deve necessariamente essere settoriali nella scelta. Quello di Bertozzi, a tratti, potrebbe apparire un omaggio agli afro americani più che agli africani del continente. Vero è, come asserisce lo stesso artista, che nel disco persiste un forte spirito aggregativo, di unione, tipico dell’Africa.
Il fine ultimo del cd è, sempre a detta dell’autore, quello di dare il proprio contributo all’integrazione, via che passa anche attraverso la musica che è di per sé un linguaggio trasversale. E come traguardo è decisamente raggiunto. Persiste un però, un senso di sospensione alla fine degli ascolti che fa chiedere se magari una incisività maggiore della musicalità africana non avrebbe giovato.
In conclusione, quello di Bertozzi è un gran bel disco jazz/funky con inserti tribali. Consigliato a tutti gli amanti della buona, anzi, dell’ottima musica. Potrebbe deludere chi invece, date le premesse, si aspetta di conoscere un po’ di più l’Africa e l’integrazione con la cultura musicale europea. Questo un progetto centrato per metà ricordando la strada presa e, per buona parte, percorsa da James Senese, Napoli Centrale e dopo. Ma sono solo punti di vista.