Restituitemi il mio corpo
Capitolo 2
“Mi sedetti alla macchina da scrivere e da quella notte non smisi mai più di combattere”. La frase della poesia di Bucowsky gli girava attorno come le note della tromba di Coltrane. Le 23.32 di una qualunque notte di giugno. Caldo asfissiante. Umido e asfissiante. Se ne stava seduto alla scrivania, sdraiato sulla sedia di finto vimini. I piedi poggiati su piano dello scrittoio di fintissimo legno. Il ventilatore falsamente d’epoca, in verità non gli era mai piaciuto, cercava inutilmente di spostare l’aria. Le mani sorreggevano stancamene la testa sudata. “Non smisi più di combattere” ripeteva una voce sottile nella sua testa. E la mente torna ai pugni presi in un vicolo poco distante. “Gentaglia senza onore. E’ stata un’aggressione alle spalle”. Accanto all’orlo dei pantaloni chiari di lino un mucchietto di memorie in attesa di essere compilate e spedite alla polizia rischiano di volare via. Cassetti semi aperti e vetro smerigliato alla porta. Tutto come da copione. Da copione anche il buco nello stomaco che non lo fa dormire da giorni. Non è esattamente nervoso. Ha proprio più fame. Sono settimane che lavora al solito ingaggio. Il crimine in diminuzione, i tempi che cambiano, la polizia più attiva. Insomma un periodo difficile se non si considera attentamente la concorrenza. Altrimenti potrebbe andare anche peggio. Vecchie foto di altrettanto vecchie finte epoche svettano dalla polvere che ricopre il piano forte posto di fronte alla porta d’ingresso. 23.45. ancora non ha sonno. Un passato da pugile dilettante temutissimo. Carriera corta, stroncata dalla sozzura che circondava l’ambiente. Una volta si sarebbe detto che gente come lui sbarcasse il lunario. Oggi il suo è un lavoro come un altro. Instabile, precario, fantasioso e sempre pronto a riciclarsi e ad essere trasformato in qualche altra cosa. Il tempo è passato sulla sua pelle con passi leggeri. Ascoltando il rumore ritmico dell’aria spostata dal ventilatore chiude gli occhi. Lascia i pensieri essere cullati dai ricordi. Gli anni appoggiati in un album di fotografie.
“Ennesimo delitto scoperto questa notte al confine del quartiere settentrionale. La polizia afferma che si tratta…” trasmette la radio con il notiziario di mezzanotte. Non si scompone. Sullo schermo del terminale direttamente collegato con l’archivio della milizia le foto di cinque estranei fatti a pezzi gli ricordano il suo dovere. E’ passato ormai un mese da quando ha ricevuto il suo ultimo incarico. “Un mese maledizione – si dice dando un’altra occhiata alle foto – un mese che fino ad ora non mi ha portato a nulla. Come si dice, gli inquirenti brancolano nel buio. Più che buio è notte fonda”. Maggio. Ci sono due volte all’anno in cui, volente o nolente Reevs deve cercare di riordinare in ufficio se non vuole essere soffocato dalle scartoffie e dalla polvere. La signora Rapani era, per sua fortuna, capitata subito dopo uno di questi giorni. Aveva così avuto la rara occasione di sedersi sulla poltrona di finta pelle e vedere quello che non avrebbe più visto: l’ufficio per intero. “E’ qualche giorno – aveva spiegato davanti ad un bicchiere di limonata gentilmente concesso da due bambini all’ingresso del grattacielo – che non ho più notizie del mio Philip. Mio nipote. Sa è un bravo ragazzo, coscienzioso e gentile. Non vorrei mai gli fosse successo qualcosa. Con la gente che gira oggi giorno non sarebbe così strano se qualcuno lo avesse preso in giro attirandolo chi sa dove. E’ un giovane così buono e ingenuo”. Reevs era recalcitrante. Non aveva proprio voglia di andare in giro a cercare il “buon Philip”. L’alternativa, però, era a dir poco deprimente. Piatto vuoto e sigarette in esaurimento. “Certo signora – gli era uscito non sa come da quella boccaccia che non sa mai quando è il caso di stare zitta – stia tranquilla. Farò del mio meglio. Ritroveremo suo nipote”. Non si promette mai che si risolverà un caso e, lui, lo sapeva bene. La sua bocca lo aveva dimenticato quella volta. Ad oggi, dopo il quinto delitto, di Philip non ha ancora nessuna notizia. La signora Rapani lo chiama ogni tanto per essere aggiornata e le scuse cortesi iniziano a scarseggiare. Quando aveva accettato l’incarico il maniaco ancora non aveva colpito così tanto. Allora il cadavere era solo uno e si era pensato ad una vendetta. Truce, ma vendetta. Ora teme la sua stessa promessa. “Non so cosa fare accidenti a me – sbotta alzandosi di scatto e accendendosi una sigaretta – non ho indizi. L’ultima volta questo bastardo aveva colpito esattamente dalla parte opposta a dove ha ucciso oggi. Neanche a dire che si sposta velocemente. E’ che non ha logica. Non ha un movente. Almeno in apparenza”. Così dicendo si trova a passeggiare attorno al tavolo con enormi gocce di sudore e di notte che gli imperlinano il viso. “Spero solo – commenta ancora tra sé – che il buon Philip sia ancora vivo e non sia lui il corpo di questa notte. O della prossima”.