Quella che potrebbe essere definita ‘avanguardia’ o sperimentazione, è sempre difficile da recensire. Non ci sono riferimenti immediati e se ce ne fossero sarebbero nello stesso ambito, per cui si tornerebbe all’origine della difficoltà.

Cosa dire di questo disco di Emma Grace, il secondo realizzato? Bello? Brutto? Inascoltabile? Troppo sofisticato? In realtà vanno bene tutte queste definizioni e non ne va bene nessuna. La nostra ci pone dinnanzi a 16 tracce dominate dal violino come strumento portante e per lo più improvvisate secondo non schemi canonici della forma canzone.

Violini, loop, voci di sottofondo, cori, chitarre acustiche, tutto suonato da Grace e utilizzati per suscitare sensazioni più che melodie.

Anche quando la canzone sembra fare capolino, Bluewoods che apre una parte del disco più intellegibile, non è mai in modo scontato.

A questo punto non può esserci nessuna considerazione di merito se non quella puramente personale di ascolterà il disco. Tutti gli arrangiamenti sono dell’autrice. Sono minimali, quindi non si può dare un punto di vista sugli arrangiamenti e neppure sulla tecnica.

Sono del tutto assenti virtuosismi. Dopo ripetuti ascolti a distanza di diverso tempo, si può solo affermare che questo Wild Fruits and Red Cheeks non è altro che una traversata dell’animo della Grace. In quanto tale presenta i toni ambivalenti e ombreggiati dell’interiorità.

Sta poi a chi ascolta capire se questa interiorità piace o meno. Non è un disco facile. Anche dopo ripetuti ascolti diversi punti restano ostici. Non credo sia un lavoro adatto a tutti palati, né, tantomeno, a chi ricerca la classica forma canzone.

Un caloroso punto di vista è dare un ascolto approfondito prima dell’acquisto. Vero è che il bello in arte può essere soggettivo ma si dovrebbe prima definire il concetto di arte.

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