Si, lo ammetto, mi piacciono le similitudini musicali. Le uso per descrivere il suono che una band propone. Almeno a grandi linee. Anche questa volta sono nomi altisonanti quelli chiamati in causa. Prendete i Killing Joke che fanno cover dei primi Soundgarden, in salsa stoner. Se non ci riuscite, non vi rimane che ascoltare i Teverts. Già questo mix crea un insieme interessante e personale. Ma i nostri ci mettono altro. Seppur i suoni siano decisamente pesanti, il basso distorto è un vero macigno sui mid tempo, c’è l’introduzione di suoni space. È la chitarra ad introdurli con interventi di note lunghe, ampiamente riverberate. Una nota va alla batteria. Questa è suonata con forza a dare il giusto impatto ai riff.
Altra caratteristica è l’andamento non lineare quanto percussivo. Dopo le due mazzate inziali arriva Under Antares light. Si abbandona l’ipersaturazione, almeno inizialmente, per dare spazio a suoni languidi. Il basso rimane martellante ma crea una base densa, liquida. La chitarra sottolinea l’ampiezza delle atmosfere con arpeggi e riff leggeri. Note provenienti dall’iperspazio. Letterariamente potremmo richiamare i racconti di Lovecraft. Molto ben azzeccato il break centrale dove chitarra e basso si soffermano su un passaggio a note mute. Questo spezza magistralmente il ritmo prima dell’arrivo di un lungo solo della sei corde in wha. Il brano è strumentale ma non si sente la mancanza del cantato.
L’andamento complessivo è ipnotico, inquietante. Sembra davvero di volteggiare nello spazio osservando immagini sorprendenti. Il ritmo si rifà incalzante con Uvb 76. le atmosfere restano scure, cupe. La composizione cambia verso la metà. Rallenta notevolmente a richiamare i passaggi più cupi e malati dei Black Sabbat. Di nuovo la chitarra aggiunge note ‘spaziali’ che invece di alleggerire rendono il tutto ancora più pachidermico. Il suono di quello che potrebbe essere il clacson di un camion ben sottolinea il movimento della canzone. Il disco prosegue con Road to awarness. L’idea che trasmette è quella di enormi asteroidi vaganti nello spazio che si scontrano come palle da biliardo. Andamento lento, suoni chiusi, saturi. La chitarra segna la traiettoria dei massi spaziali con note in pulito effettate con wha e riverberi. Non si respira mai. Lo stato di apnea pervade tutto il disco.
La voce è quella del nostro protagonista che come l’astronauta di 2001 odissea nello spazio, si perde tra i propri pensieri, l’orrore dello spazio siderale e la paura di non riuscire a rientrare. Angoscia in note. La chiusura del cd è affidata a Coming home. Il titolo potrebbe dare idea di una liberazione. Ma non è così. È un rientro angoscioso. La base ritmica è impenetrabile. Il ritmo è un mid tempo impercompresso. Il cantato dà voce alla disperazione. Non urla. Il che rende l’insieme ancora più inquietante. A metà la composizione rallenta notevolmente. È il momento del solo di chitarra. Le direttive precedenti sono rispettate. Note sofferte, disperate, lancinanti in un contesto cupissimo. Il ritorno a casa potrebbe essere benissimo inteso come la fine del viaggio della vita. Il tutto si trascina senza sosta fino alla chiusura del brano.
Concludendo. Quello dei Teverts è un disco assolutamente particolare. Pesante, pesantissimo, sia come suoni sia come atmosfere. Un racconto degno dei migliori maestri del fandom. La tecnica dei nostri è perfettamente utilizzata per dare forma alle loro idee. Non ci sono cali, spazi aperti o luce. L’ascoltatore viene rapito e portato nello spazio siderale dove osserva inerme avvenimenti eccezionali. Lo stupore iniziale lascia spazio all’angoscia. Il finale è il nostro che si volta cercando un modo per poter tornare sulla terra. Ma non trova nulla. Già questo dovrebbe fa capire che non è un lavoro ascoltabile con leggerezza. Insufficiente l’abitudine a certe sonorità. Più che una questione di suoni è un fatto interiore. Si deve essere pronti a scontrarsi con la paura del vuoto, essere disposti ad affrontare i propri demoni.