Una carriera quarantennale, diversi cambi di formazione, sei dischi e il ritorno nel 2023. Questi sono, a grandi linee, i Rod Sacred di Franco Onnis. I mutamenti intercorsi in questi 4 decenni non rendono possibile stilare una evoluzione stilistica precisa. Differenti musicisti, diversi generi, anche se tutti attinenti al metal. Ora più classicheggiante, ora più hard rock. L’ultima incarnazione ha dato vita a Part. Un lavoro egregio di heavy rock. Un disco molto chitarristico.
La sei corde è protagonista indiscussa di queste 8 tracce. Per cercare di descrivere le linee guida possiamo chiamare in causa diverse band. Prima tra tutte i Dokken più in forma. Seguono Scorpions, Whitesnake, Thunder. Le tracce si muovono a perfetto agio tra riff sabbatiani e ritmi hard rock. La chitarra è sempre, giustamente, in evidenza. Tecnica, pulizia, potenza, gusto melodico. Tutto al punto giusto. Le influenze per i chitarristi arrivano da diversi spunti. Da Malmsteen a Zakk Wilde passando per Van Halen. I duetti sono davvero intensi. In particolar modo quando si intrecciano acustica ed elettrica.
Una menzione va anche alla voce. Non è facile riuscire a rendere differenti le tracce della propria band. Il rischio di utilizzare uno stile che spesso rischia di essere ripetitivo, è sempre in agguato. I nostri ben lo evitano. La voce è capace di passare da registri acuti, molto tecnici, a momenti più delicati, evocativi, intensi senza sforzi. La nota positiva è la capacità di adattare la narrazione al contesto. Molti coinvolgenti le performance sulle due ballad del disco, Land of pain e I miss you. La prima una power ballad hard rockeggiante. La seconda una ballata più canonica. Il disco apre con Another day che mette subito le cose in chiaro.
Una mitragliata di note introduce il brano. Il riff portante è giocato su corda singola fino all’ingresso della ritmica. Questa è potente e incalzante. Soprattutto, non tiene mai lo stesso rif per troppo tempo. Ecco, questa è una caratteristica sorprendente dei nostri. Le chitarre continuano a cambiare. Il riffing è inarrestabile. Una banderuola che continua a cambiare direzione. Ora si fa piena, poco dopo si alleggerisce. Riff a note singole, power chord, a solo all’unisono armonizzati. Insomma, un vero e proprio manuale del perfetto chitarrista. Non fa difetto neppure lo studio della teoria con l’utilizzo di scale minori armoniche che colorano il solo finale.
Si prosegue con Free man. Il canovaccio è il medesimo con la differenza che questa volta è il basso ad emergere. Si discosta dall’accompagnamento classico per tratteggiare linee proprie. Queste si intrecciano con le linee di chitarra a dare accenti all’andamento generale. Ottimo il break a ¾ che introduce il solo. Rallentamento, voce in primo piano. La reprise è su un banding che riapre la corsa fino allo scemare finale. Arriva quindi Lan of pain. L’introduzione è affidata alla chitarra acustica. Ancora una volta è il basso a spiccare. Deve essere fratless a giudicare dal suono. Le chitarre in questo caso si limitano ad accompagnare. Ottima la melodia melodia della voce.
Retro quanto basta senza essere banale. Presente un certo debito verso Klaus Mein, in particolar modo sugli acuti. Il brano si dipana tra attimi di potenza e ritorno a movimenti più soft. Anche il solo si sviluppa nello stesso modo. Prima parte più potente, seconda con chitarra acustica. Ring is broken è la quarta composizione. I toni si alzano. Il ritmo iniziale è incalzante. È il brano dove i riferimenti a George Lynch sono più evidenti, in particolar modo per le ritmiche di chitarra e l’utilizzo di tridi e rivolti. Gli stessi a solo richiamano i losangelini. Non che sia un male. È un riferimento stilistico, non una scopiazzatura.
Interessanti ancora una volta le linee di basso. La quinta traccia è Try to understand. L’andamento si fa pesante, scuro, cadenzato. Le chitarre si dividono la scena tra una ritmica pachidermica e interventi solisti lancinanti. Questo non i fermano praticamente mai con risultato di aumentare il senso drammatico della canzone. I miss you è una ballad hard rock con tutti i migliori crismi. Arpeggio evocativo, a solo con suoni lunghi, accompagnamento di archi nell’introduzione. Particolare l’arpeggio. Non è il classico andamento melodico. È molto teso. Quasi dissonante. Davvero ottima la voce che è riuscita ad adattarsi al nuovo contesto in maniera egregia. A metà circa, come tradizione impone, si alzano i toni. La ritmica si fa piena.
Entra il solo in tutta la sua magniloquenza e porta fino alla conclusione. Penultimi traccia è Another day. È uno strumentale che sembra voler rendere omaggio ad Asturia si Piazzolla. Non è una cover ma l’arpeggio iniziale va in questa direzione. Subito dopo l’andamento si fa pieno. Entrano a gran voce chitarre e basso all’unisono. Caratteristiche che accompagna la composizione in diversi punti.
Pur essendo strumentale la band non si lascia andare a sfuriate di note ad altissima velocità. Anzi, introduce diversi cambi. Il più notevole rimane senza dubbio il solo finale eseguito richiamando la tecnica di Tom Morello. Il disco chiude con No regress, tiratissima cavalcata heavy. Doppia cassa potente, ritmica serrata, voce a tema. Non ci sono cali. Il solo si adegua all’andamento generale sfornando una prova tecnica di tutto rispetto.
Concludendo. Un buon disco heavy rock come non se ne sentivano da diverso tempo quello dei Rod Sacred. Non manca tecnica, padronanza, pulizia dei suoni così come capacità di scrivere ottime canzoni. Siamo di fronte non a dei nostalgici quanto ad un prodotto contemporaneo scritto da persone navigate.