Questa volta parliamo di numeri. Fino ad ora abbia descritto il valore in termini di qualità del nostro mondo indipendente. Il lavorare per se stessi innanzitutto, lascia ampio spazio alla libertà espressiva e alla libera espressione delle proprie qualità. Il che porta a proposte al di sopra delle righe. Abbiamo evidenziato lo sforzo fatto da tutti per promuovere un mondo in perenne movimento ed evoluzione.
Come recita il Win (Worldwide Indipendent Network) in questo rapporto:
“Se si chiede agli artisti perché preferiscono farsi scritturare da un’etichetta indipendente piuttosto che da una grande casa discografica, la risposta è sempre la stessa: maggiore libertà creativa e artistica. Esprimersi in termini assoluti non è molto scientifico, tuttavia è vero che gran parte delle etichette indipendenti ha un’impostazione per cui gli artisti che rappresenta sono liberi di fare musica secondo la propria visione personale. Le grandi case discografiche, invece, di norma puntano solo sulla musica che si può industrializzare”. E ancora:
“Le etichette indipendenti sono fonte di innovazione e varietà nel mondo della musica, sia nell’industria sia per fruitori e consumatori, e svolgono un ruolo determinante nella scoperta e lo sviluppo di talenti grezzi. Alla continua ricerca di forme musicali innovative e di artisti esordienti, a livello imprenditoriale sono caratterizzate da una maggiore disponibilità a rischiare. Nel mercato moderno, mantengono un continuo equilibrio tra priorità artistiche e commerciali[…]
[…]Le etichette indipendenti non agiscono solamente in base a considerazioni di carattere economico. Spesso, anzi, puntano sul valore artistico di cantanti non ancora affermati a livello commerciale. Valutandone il potenziale a lungo termine, anziché le prospettive di vendita nel breve termine, li aiutano a realizzarsi”. “Pur non essendo le prime caratteristiche di cui ci si preoccupa normalmente, l’innovazione artistica e la libertà d’espressione portano sicuri vantaggi economici nel ciclo vitale di un prodotto o di un artista”.
“Nell’ambiente musicale, la musica indipendente svolge una funzione fondamentale, poiché apporta varietà e innovazione a un sistema di musica massificata che tende a riciclare le hit di successo fino alla stagnazione”.
“L’innovazione artistica è la madre della creatività imprenditoriale. Questa combinazione ha fornito un flusso costante di idee nuove al resto del settore, sia sotto forma di nuovi modi di fare musica, artisti e generi, sia come approcci innovativi al marketing e alla distribuzione. Nel settore indipendente, il valore culturale e quello economico sono indissolubilmente legati”.
La domanda ora è: come si contestualizza questo all’interno di un universo più ampio e che tipo di apporto ‘concreto’ dà alla società odierna in termini economici? Insomma, quanto vale il mondo underground, quanto soldi genera? Perché noi, comprando un disco, andando ad un concerto, acquistando una maglietta, o semplicemente ascoltando musica sulle diverse piattaforme, generiamo profitto. Secondo un articolo comparso su Il sole 24ore del 16 novembre del 2021, il nostro settore apporta “un contributo al Pil (del settore musica ndr) da 104,4 milioni di euro impiegando 1.269 persone. Numeri che escono fuori dallo studio La musica che conta, condotto insieme da Deloitte e Afi, l’associazione confindustriale delle Pmi della musica. Secondo le stime di Deloitte, le etichette indipendenti contribuiscono per una quota pari a circa il 31% del valore aggiunto complessivamente creato dal settore della produzione musicale in Italia’. Ossia, un terzo di tutto ciò che il comparto musicale produce viene dalla musica indipendente. Impressionante, direi.
Ma lo studio non si ferma qui. Infatti musica indipendente non significa solo dischi, streaming, internet. Ha anche ‘implicazioni con altri comparti come la musica dal vivo, il cui valore in era ante Covid si attestava sui 516 milioni, ballo e concertini, segmento da altri 1,051 miliardi’. È un giro d’affari enorme. Se non bastasse, il fenomeno del peso delle etichette indipendenti è un fenomeno che in Italia fa più numeri che all’estero. “Deloitte afferma che «il contributo delle etichette indipendenti al settore della produzione musicale in Italia risulta maggiore rispetto a molti Paesi del Nord Europa» come il Regno Unito, dove l’universo delle indie label «risulta contribuire a solo il 23% del totale del settore».
C’è una certa vivacità imprenditoriale in questa classe di aziende, se consideriamo che nel periodo che va dal 2011 al 2019 i soggetti operativi sono cresciuti del 35 per cento. E mentre le major sono tutte concentrate a Milano, le etichette indipendenti sono distribuite su tutto il territorio nazionale”. Questo dovrebbe farci riflettere sulla nostra esterofilia, il nostro continuo dire che ‘all’estero è meglio’. Che certe cose possano funzionare meglio, è innegabile. Tuttavia non è tutto oro, come dicono i dati.
Su questo roseo spaccato, è, però, calata la mannaia del covid che ha messo in crisi tutti.
“Mettendo insieme attività discografiche, editoriali, manageriali e concertistiche delle etichette indipendenti, secondo Deloitte il peso della pandemia si è sentito eccome: tra 2019 e 2020 le nuove pubblicazioni sono cresciute del 15,3%, ma i ricavi calati del 48,4% tra crollo del fisico (-23,7%) e calo dell’incidenza del fatturato per eventi dal vivo e tour (-9,7%). Il tutto con un’inevitabile flessione del 2% del numero dei dipendenti”. Nonostante tutto, però, il settore non demorde. Lentamente si sta rialzando, rilanciando con nuova consapevolezza, svecchiato e teso verso il futuro e non il tradizionalismo.
Perché questa pletora di numeri, cifre, statistiche? Per evidenziare, ancora una volta, come il nostro mondo non è avulso dal contesto. Che anch’esso, come tutti i settori produttivi, intesi in senso ampio, ha un valore, una validità, un peso e una dignità. Tutte qualità che i primi a non vedere siamo proprio noi. Ecco perché, ribadisco, non è accettabile l’improvvisazione, il qualunquismo, l’amatorialità. Si fa parte di un settore che ha moltissime risorse, che investe su se stesso generando profitto globale. In più, in totale autonomia e libertà. Si tratta sempre di più, per quanto autogestito, di un settore professionale che in quanto tale non può essere dominato dall’approssimazione.
Chi lavora all’interno del mondo underground, è un professionista. Nel momento in cui artisti e band entrano in studio per registrare, non sono più semplici lavoratori con la passione per la musica. Sono musicisti a tutti gli effetti. Ed è esattamente così che TD li tratta e dovrebbero essere trattati. Allo stesso modo vanno considerati gli operatori. Ed è il medesimo motivo per cui il proprio lavoro non può e non deve essere regalato. Diversamente nessuna band dovrebbe mettere dischi in vendita. Ma sono concetti già espressi. Il nostro è un settore serio, ricco di potenzialità di talenti, di possibilità. A dirlo non siamo noi, sono i numeri. È ora di togliersi le bende dagli occhi.