Chi ha detto che non si può inventare nulla di nuovo in musica? La dimostrazione del contrario è il progetto del Dr. Schafausen, all’anagrafe Sergio Pagnacco, creatore del Dystopian Metal. Questo genere contiene diverse influenze come metalcore, djent, trap e progressive metal. Le parole non riescono a rendere il risultato ottenuto dall’alchemica mistura. Una certezza è che il suono risultante è potente, d’impatto, d’atmosfera, mai domo, sempre in movimento, anche nei frangenti più calmi. Particolare, ancora più, coraggiosa, la scelta del tema trattato in questo How can you die?
Il Dr infatti prende in considerazione per i testi il mondo dei disturbi mentali. E lo fa cercando di ricreare strutture che possano richiamare lo stato d’animo dei pazienti. Se ce l’abbia fatta o meno è un punto di vista del tutto personale. Come personale è la reazione e la gestione dei disturbi. Entrando nel merito più strettamente musicale. Il disco apre con Brain Fog. Le carte sono subito scoperte.
Riff di chitarra incalzante, scream, ritmo elevato. Ma è solo l’intro. Dopo questa manciata di secondi il brano si arresta. Subentrano atmosfere trap, molto urbane. Cantato sospeso tra hipo hop e voce melodica. Questa tiene campo anche al rientro del ritmo delle chitarre e dei ritmi spezzati. I crismi djent sono tutti rispettati e perfettamente mixati a strutture più leggere. Elettronica, suoni distorti, effetti sonori, tutti elementi che si fondono a delineare un’atmosfera fluida.
Il finale è affidato alla voce in growl alternata a scream e pulito. Molto azzeccata l’alternanza di diversi tempi in puro stile mat. La seguente title track apre con un arpeggio di tastiera su cui poggiano note di chitarra. Il ritmo è moderato per offrire il giusto supporto al cantato rappato. A metà strada tra Linkin Park e Limpbiskitz il brano decolla sul ritornello con aperture iperdistorte. Si rientra in ambito più morbido ma solo per sgomberare la strada al nuovo assalto sonoro.
Questa volta si aggiungono anche le due covi più cattive a dare manforte. L’atmosfera non si alleggerisce neanche sulla ripresa del frangente più melodico. Se l’intento è far sentire il disagio all’interno della mente dell’ascoltatore, il risultato è raggiunto. Anger inizia lenta, introdotta da suoni lunghi di tastiera. Il riff arriva come un fulmine. Pieno, cattivo, sincopato, come il ritmo seguente. Si alternano due voci. Melodica e scream fino all’apertura più urban.
Su un tempo lento l’ingresso delle chitarre segna un appesantimento notevole del brano. Si accelera leggermente per dare la possibilità alla chitarra di produrre riff su riff. Il break centrale è davvero notevole. L’ambiente sonoro si apre. Visivamente si può immaginare un giovane ragazzo fermo in tarda sera in una piazza mentre si guarda attorno smarrito. Lo smarrimento si accentua quando la canzone deflagra con i soni delle chitarre e la voce in growl. Ottima la scelta di tenere il mid tempo come portante.
In questo modo tutti gli interventi strumentali sono intellegibili e godibili. Si passa a Gaming disorder. Qui la struttura della precedente si ripropone in un prosieguo stilisti che diventa anche narrativo. Forti sono i contrasti come le emozioni che si avvicendano. La contrapposizione di melodia e suoni spigolosi è perfetta per la narrazione. Nel break centrale la voce in growl viene doppiata da una in scream. L’effetto è assolutamente coinvolgente.
Allo stesso modo i cori che accompagnano il passaggio successivo. Nuovamente voce growl e scream, quasi a simulare un dialogo tra due entità interne alla mente del protagonista. Fino all’epilogo. Daydream è un brano d’atmosfera. Apre con una base trap molto notturna. Questa si interrompe per dare spazio ad una chitarra in accordi. Subito dopo un’esplosione elettrica di pura potenza. Nuovamente le due parti in perfetta contrapposizione si scambiano battute.
Nonostante questa corsa in due, a dominare è sempre l’atmosfera. Si è persi in un vortice di sensazioni accentuato dal continuo passaggio da una tecnica vocale all’altra. L’operato della sezione ritmica è più che notevole. Non deve essere facile darsi il cambio con le parti elettroniche e allo stesso tempo essere così inarrestabili. Il brano successivo è We are digital. Questa volta si parte subito in quarta. Ritmo incalzante, wall of sound, voce sporca. Cala leggermente l’atmosfera generale sul primo break.
La vera sopresa arriva successivamente con l’utilizzo di un cantato ‘lungo’ contrapposto al ritmo serrato di base. Nuovo cambio circa a metà. Si rallenta, ma solo prendere la rincorsa verso la potentissima sezione successiva. Le due chitarre si distaccano. Una rimane sul ricamo su note acute mentre la seconda esegue ritmiche sincopate su note basse. Ennesima accelerazione, quasi in blast bit. Frenata improvvisa, apertura acustica. Si torna a suoni pieni. Ritmica serrata, non veloce con cassa in ottavi su china in quarti. Di nuovo suoni aperti per il finale non distorto.
Hikikomori è un brano dedicato ad un nuovo disturbo che sta prendendo piede tra i giovani soprattutto in Giappone. Persone che decidono di non uscire più di casa, se non direttamente dalla propria stanza. Un isolamento volontario dovuto alla paura di affrontare il mondo. Tenendo presente il concetto si riesce a seguire musica e cantato alla perfezione. Soprattutto da un punto di vista emotivo.
I cambi, come negli altri brani sono incalzanti. Le voci si alternano ora per dare fiato alle paure, ora alla coscienza, ora alla speranza e alla rassegnazione. La lotta appare impari. Il protagonista non riesce a venire a capo delle proprie paure. E porta l’ascoltatore tra esse. Ultima canzone, nell’ordine Spotify, è Comet. Un arpeggio di piano introduce al viaggi interstellare. È quasi come se Bowie avesse incontrato il Djent (si passi il paragone forte).
Le ritmiche sono sempre poco ortodosse, spezzate. Le voci si affastellano, si scambiano il testimone mentre la nostra fantasia è portata sulla coda della cometa. Ad assaporare il paesaggi e, soprattutto, il disagio. Il contesto non va mai dimentica in questo disco. La struttura circolare ripropone l’arpeggio iniziale.
Concludendo. Un disco impegnativo, quello del Dr. Schafausen. Impegnativo sia per i suoni, sia per la struttura dei singoli brani, sia per i testi. Non si potrebbe ascoltare con leggerezza. Ha dalla sua una complessità rilevante a livello tecnico, tuttavia possiede quella vena catchy e di contemporaneità che potrebbero portarlo lontano.
Non rimanere fermi e attendere che strada farà da solo.