Qualcuno recentemente ha affermato: l’underground non esiste più, le band non sono per nulle indipendenti, farebbero carte false per andare a Sanremo. Questo qualcuno non è esattamente uno sprovveduto, anzi. È una persona che fa parte dell’underground, che ha militato in band di rilievo, che ha inciso e incide ancora dischi. Una nota, non proprio secondaria, è che non è più giovanissimo. Le affermazioni esternate sono piuttosto forti, pesanti.
Arrivare a dire che sono irrispettose è un po’ troppo, ma poco ci manca. Dal mio punto di vista non corrispondono a verità. Avendo a che fare ogni giorno con artisti underground, posso serenamente affermare che l’underground non è per niente morto. Anzi. È vivo e gode di buona salute. Questo in ogni genere e settore musicale. Dal cantautorato al metal estremo passando per il punk e la sperimentazione. Esistono centinaia di band attive, attivissime che propongono ottima musica. E credo che il nostro personaggio lo sappia. È morto l’underground come lo si conosceva tempo fa.
Si è spento quel movimento che inviava le cassette alle label indipendenti. Che contattava le fanzine cartacee e le riviste di settore. Ma è nato quel movimento che utilizza internet per promuoversi. È nato un mondo nuovo di cui gli ultracinquantenni, per non dire quarantenni, non fanno più parte per una mera questione anagrafica. Parliamo di un universo in evoluzione. Come è giusto che sia. Meno male, verrebbe da dire, che le cose sono cambiate e che un certo modo di fare non c’è più.
Collegato a questo aspetto c’è quello dell’essere indipendenti. Mai come oggi gli artisti sono stati davvero indipendenti. Pensiamo semplicemente alla registrazione dei dischi. Quanti si sono fatti un disco totalmente in casa? Moltissimi, e il risultato è più che buono. Arrivare a non aver bisogno neppure di uno studio di incisione non è totale indipendenza? Non devo dipendere da nessuno che mi dice che suoni utilizzare perché li scelgo io. Nessuno che mi dice che copertina scegliere, come presentare il disco.
Più indipendenti di così credo sia difficile. Nessuno, a livello teorico, non avrebbe più bisogno di un ufficio stampa, di un distributore, di chi gli cura la comunicazione. Sui risultati di questo modo di fare potremmo discutere all’infinito. Fatto sta che le cose stanno in questo modo. Prima di oggi le band potevano dire la stessa cosa? Non credo. Ancora. Farebbero carte false per andare a Sanremo.
Chi, presentando un certo tipo di proposta, non lo avrebbe fatto pure in passato? Gli artisti che agognano il palco dell’Ariston ci sono sempre stati. Magari con la consapevolezza di non vincere ma di vedere la propria musica arrivare ad un numero di persone che difficilmente sarebbero riusciti a raggiungere. Si tratta, come sempre, di una questione di scelta. A fronte di decine di musicisti che vorrebbero arrivare al festival, ce ne sono altrettanti che propongono musica che con Sanremo non ha e non avrà mai nulla a che spartire. Questi non contano? Vogliamo vedere solo la parte negativa?
Mi pare un atteggiamento irrispettoso verso chi si esprime e basta. Verso chi l’underground lo fa vivere. È come dire che un gruppo metal estremo non vorrebbe arrivare a suonare a Wacken. Chi non lo vorrebbe? Dipende solo dalla mia proposta scegliere il palco giusto. E non per questo mi sono svenduto. Onestamente le affermazioni in apertura mi appaiono come le dichiarazioni di chi asserisce che tutta la musica di oggi è inascoltabile. La musica vera è quella della mia generazione e di quelle antecedenti, non questa porcheria. Oggi i gruppi non valgono nulla. Si limitano a riproporre schemi già scritti. E tutti i gruppi che sperimentano? Dove li mettiamo? O anche la sperimentazione non vale?
L’underground è morto. Vero. È morto come lo conoscevamo. Oggi siamo ad un underground 2.0. Il non riuscire a decifrarlo con schemi a noi noti non ci autorizza a dire che fa schifo o che, peggio, non esiste. La parola d’ordine è consapevolezza e storicizzazione. Si deve prendere coscienza del fatto che il mondo scorre al di là di noi e della nostra esperienza. E noi, generazioni tra gli anni 60 e il 2000, ne siamo tagliati fuori. Questo ci fa rosicare moltissimo. Non accettiamo di non avere più il polso della situazione.
Per questo ci ostiniamo a riproporre sempre le medesime cose in tutti i settori. Quanti ‘divulgatori’ ci sono che ripercorrono le vicende delle band storiche? Sempre le stesse e sempre nello stesso modo. A chi giova questa scelta? All’underground? Alle nuove leve? Direi a nessuno, se non a noi onanisti musicali fermi nelle nostre ferree posizioni di assoluto prestigio perché abbiamo avuto il privilegio di poter vivere un’epoca di ricco fermento. Tuttavia la storia non è fermata in quel momento.
È andata avanti. Come uscire da questa trappola per boomer? Mettendosi a disposizione delle nuove generazioni. Condividendo e non pontificando. Avendo un confronto e uno scambio e non insegnando. Scavare nelle biografie dei gruppi storici per tirare fuori ‘duecento cose che non sai’ non porta da nessuna parte. Facciamo capire a chi arriva dopo di noi perché certe band sono quello che sono. E loro ci diranno perché i loro artisti sono in vetta o sono seguitissimi.
Magari noi potremo imparare a capire meglio il loro punto di vista e, i più giovani, a sentire la musica con un orecchio diverso. Diciamogli perché i Beatles hanno sconvolto la storia delle sette note. Non scandalizziamoci perché non conoscono Sergent Pepper. Facciamoglielo conoscere noi. Soprattutto, smettiamo di dire che viviamo in un cimitero culturale.