Intervista di Emanuele Meschini
Luigi Grechi è un artista che è rimasto sempre fuori dagli schemi più classici della musica leggera. Nato musicalmente alla fine degli anni sessanta al Folkstudio di Roma, il locale di Trstevere che fu in quel periodo l’approdo di tutta una generazione musicale d’avanguardia (ci capitarono, fra gli altri, Odetta e Bob Dylan), è sempre stato disinteressato alle mode e attratto dalla musica dal vivo più che dalle sale di registrazione. A metà degli anni ’70 lo troviamo a suonare in giro per festival alternativi e radio libere, locali e cantine. A Milano fa anche il bibliotecario, come già suo padre e suo nonno, ma questo non gli impedisce di continuare a suonare e ad incidere brani corrosivi e spiazzanti. Verso la fine degli anni ottanta lo troviamo con qualche disco in più all’attivo e con l’attività di bibliotecario ormai alle spalle. È di questo periodo “Il Bandito e il Campione”, brano portato al successo dal fratello Francesco De Gregori (Grechi, per chi non lo sapesse, è un nome d’arte), grazie al quale Luigi Grechi si aggiudica il Premio Tenco a Sanremo nel 1993 per la miglior canzone dell’anno. Dal 7 luglio è uscita la raccolta “TUTTO QUEL CHE HO 2003-2013” , una collection che racchiude i suoi brani più rappresentativi in cui si mescolano storie e personaggi molto cari al cantautore. Sono 18 i brani tratti dai precedenti album (“Angeli e Fantasmi”, “Pastore di Nuvole” e “Ruggine” ) che si susseguono come in uno spettacolo dal vivo dando una continuità quasi inaspettata a questo progetto discografico. L’album, in bilico tra il folk e l’alt-country, ripropone canzoni che hanno ora una nuova vita. Ma chi è Luigi? Ora lo scopriamo.
Musicalmente sei nato alla fine degli anni ’70, un periodo di grande fermento artistico. Come ti sei avvicinato alla musica?
Quando ero ragazzino, negli anni ’50 ascoltavo la radio (la TV doveva ancora nascere). Erano gli anni del rock ‘n roll, di Elvis, degli Everly Brothers, ed io impazzivo per quel suono “tutto chitarra e batteria” come dice Francesco. Poi ho scoperto che quella musica era l’evoluzione del vecchio blues, del folk americano e del country. Quando poi sono capitato al Folkstudio e ho cominciato a frequentarlo, non c’è più stato rimedio…
In quel periodo facevi tante cose: la musica aveva un posto di riguardo?
Era la cosa più importante… i miei genitori hanno perso ogni speranza che io mi laureassi malgrado abbiano cercato in tutti i modi di farmi studiare. Io poi ho studiato anche, ma solo quello che mi interessava e senza badare agli esami.
Cosa voleva dire fare musica allora? E soprattutto a Roma?
Nessuno pensava ai soldi o al successo. Una canzone che cantavi era il mezzo per far colpo sulle ragazze ed avere tanti amici… paradossalmente imbracciare la chitarra e cantare era un modo per vincere la timidezza.
Poi sei andato a Milano a fare il bibliotecario: raccontami questo periodo della tua vita.
Fare il bibliotecario era una tradizione di famiglia, e oltretutto il lavoro all’inizio mi appassionava. Pensavo che la musica sarebbe rimasta un passatempo: invece, quasi per caso cominciai a fare i primi dischi e concerti a Milano e provincia e via via in tutt’Italia. Mi licenziai dalla biblioteca. Non poteva durare.
Ma hai girato un po’ di mondo: il viaggiare quanto ti ha influenzato?
Dico spesso che fare il cantautore è per me una scusa per fare il vagabondo. Viaggiare è il solo sistema per tenere a freno l’irrequietezza.
Nella tua carriera artistica sei sempre stato lontano da mode e logiche commerciali, ma questo non ha impedito di farti conoscere: secondo te cosa vuol dire questo?
Non so, forse che è destino, oppure una maledizione…
Hai anche vinto un premio Tenco: è stato un traguardo oppure no?
È stata una cosa che mi ha molto incoraggiato. Prima, per trovare un concerto dovevo spiegare chi ero, che genere di musica facevo: dopo essere stato premiato dalla giuria del Tenco mi bastava dire che ero l’autore de “Il Bandito e il Campione”.
Gli USA e tutta una cultura musicale sono sempre stati una fonte di ispirazione per te: oggi a cosa guardi?
Senza rinnegare i miei vecchi maestri che ancora mi danno i brividi, guardo alla musica africana, il gnawa, il griot… in fondo è da lì che è nata la musica che mi piace ed è giusto tornare lì a cercare ispirazione.
La libertà mi sembra sia un tratto essenziale della tua vita: qual è la vera libertà?
Rispondevo a questa domanda già nella mia prima canzone (“Il mio cappotto”): la libertà non è fuga, non è evasione ma è impegno quotidiano nei posti che conosciamo meglio e dove abbiamo più capacità di intervenire.
Come è nato questo tuo ultimo lavoro? Perché hai scelto una raccolta? E poi perché solo dal 2003?
“Tutto quel che ho 2003-2013” contiene il meglio dei miei tre ultimi CD di cui possiedo i diritti. Ma molte delle canzoni sono state scritte a partire dagli anni ‘70 e addirittura già registrate a suo tempo in altre versioni. Insomma, ho voluto presentare al pubblico che ancora non mi conosce il meglio della mia produzione in una versione definitiva. O almeno così spero.
Cosa vuoi fare adesso?
Un bel tour e un nuovo disco con canzoni nuove.
Come ti vedi tra 10 anni?
Sotto la veranda di casa a suonare la mia chitarra
A presto e in bocca al lupo!